IL "PONTE SULLO STRETTO", BESTIA NERA DEI PONTI SOSPESI
Il 7 novembre del 1940, alle 11 circa del mattino di una giornata di forte
vento, il Tacoma Bridge, nello stato di Washington, Stati Uniti, comincia ad
oscillare paurosamente.
La sede stradale che attraversa la baia si attorciglia
su se stessa come un nastro: pochi secondi e il ponte, inaugurato appena 4 mesi
e 7 giorni prima, letteralmente esplode, sbriciolandosi nell'acqua.
Una celebre
ripresa cinematografica, che ha fatto il giro del mondo, documenta il collasso
del ponte che, fin dall’inaugurazione, era stato soprannominato «Galloping
Gertie», proprio a causa delle oscillazioni «galoppanti».
https://www.youtube.com/watch?v=j-zczJXSxnw
Le oscillazioni
non controllate sono la bestia nera dei ponti sospesi.
Provocate dal vento, da vibrazioni o da
fenomeni di risonanza (è noto che i plotoni militari, quando attraversano un
ponte a piedi, «rompono» il passo per evitare di innescare il fenomeno della
risonanza) ne mettono a serio rischio la stabilità.
Di recente il
bellissimo Millennium Bridge sul Tamigi, progettato dallo studio di Norman
Foster e realizzato dagli ingegneri della Ove Arup, uno dei gruppi più
importanti del mondo, specializzato in grandi strutture, è stato chiuso e
sottoposto a pesanti lavori di stabilizzazione perché oscillava a tal punto che
la gente che vi passava sopra (il ponte è una passerella esclusivamente
pedonale) oltre a spaventarsi non poco, accusava malori e giramenti di testa.
Se si pensa che il Millennium Bridge è lungo circa 300 metri e lo si mette al
confronto con il Ponte sullo Stretto di Messina, che di metri ne misura 3.300,
si può ben comprendere quali siano i problemi, le incognite ed i rischi che la
progettazione del ponte dovrà affrontare…
Sono certo che
studi e prove, sia teorici che sperimentali, sono stati fatti bene, ma c’è un
problema di affidabilità più generale, un dominio del non saputo a preoccupare.
Ovvero, le tradizionali prove e simulazioni non garantiscono, nel caso di luci
così grandi (la luce è la lunghezza della campata, una sufficiente e sicura
estrapolazione dei dati.
Vuol dire che ciò che vale per un ponte più corto non è applicabile
proporzionalmente ad un ponte più lungo: sono i risultati di un simposio
internazionale, lo Isalb ‘92, svoltosi a Copenhagen, da cui si è ricavata la
sensazione «ingegneristica» che l’affidabilità del processo globale di progetto
e verifica del sistema strutturale classico del ponte «semplicemente» sospeso
abbia un limite attuale per luci fino a 2000 metri.
A queste conclusioni si è arrivati
poiché il congresso di Copenhagen era dedicato a ponti a grandissima
luce e vide la partecipazione di specialisti e progettisti del settore. Furono
fatte tre presentazioni principali: quella del ponte sullo Storebeld in
Danimarca (1.624 metri), quella del ponte Akashi Kaikyo in Giappone (1.990
metri) e quello per il ponte di Messina (3.300 metri).
I danesi presentarono il
progetto esecutivo del loro ponte con sezione «aerodinamicamente trasparente»,
che è una sezione di tipo alare molto sottile per resistere all’azione del
vento trasversale.
È una forma venuta fuori dopo la tragica esperienza del ponte di Tacoma. In quel caso, partendo dalla tipologia classica del ponte sospeso, come quello di Brooklyn, per ridurre peso e offrire meno resistenza al vento, si era assottigliata sempre più la sezione dell’impalcato, fino al collasso.
I giapponesi con
il loro ponte, che presentava un salto di 300 metri in più rispetto a quello
danese, proposero una soluzione che segnava il ritorno al modello dei ponti
«rigidi» perché, dopo una serie di lunghe ed approfondite prove su almeno un centinaio di
sezioni differenti, realizzate in un’avanzatissima galleria del vento con una
larghezza di 45 metri (normalmente si usano gallerie larghe 4-5 metri), si
erano accorti che la sezione «aerodinamicamente trasparente» non andava bene
per una luce di quasi 2.000 metri.
E decisero di adottare una sezione
«scatolare», più rigida, anche se questo avrebbe aumentato pesi e costi.
Al congresso di Copenhaghen i rappresentanti
italiani sorpresero un po’ tutti, perché riproposero
l’ipotesi danese, applicata però ad un ponte lungo 1.600 metri in
più di quello sullo Storebeld e oltre 1 chilometro in più dello Akashi
Kaikyo.
Un grande salto che apriva un’altrettanto grande discontinuità applicativa.
E anche se da allora sono passati diversi anni, e studi e prove
sono stati affinati, quando si fanno salti così grandi non si possono
estrapolare previsioni di comportamento da ponti più piccoli. Avremmo
insomma bisogno di informazioni ulteriori, che per ora non ci sono e che anzi
la Società del Ponte di Messina ha rimandato al progetto esecutivo, per dire
che l’affidabilità del progetto è completa (!!!)
E poi il progetto della Società Ponte di Messina ha individuato nella sezione
dell’impalcato l’oggetto principale della progettazione, certamente trovando
soluzioni più avanzate delle precedenti. Ma la risposta ai problemi di
stabilità e di sicurezza di un ponte non la dà solo la sezione dell’impalcato:
è una questione di cavi, di proporzione tra la luce e l’altezza dei piloni, di
stabilità dei pendini (i cavi verticali che sostengono il ponte), di
sollecitazioni e deformabilità dovute al passaggio dei treni.
Perché, ricordiamolo, il ponte di Messina dovrebbe essere anche un ponte
ferroviario.
Dovrebbe... perché le oscillazioni ineliminabili ricordate prima non garantiscono
rigidità necessaria alla stessa infrastruttura ferroviaria. Prove ne è che
Ferrovie Nazionali Giapponesi non fa passare i suoi treni sul loro ponte a
campata unica più lungo del mondo.
Tra le due ipotesi, quella che va alla ricerca della leggerezza e della trasparenza al vento e quella che punta invece sulla rigidezza e la pesantezza dell’impalcato per una opposizione più efficace, è possibile una terza strada, una soluzione tecnologicamente più complessa che garantisce sicurezza nel caso di luci oltre i 2.000 metri, ed è quella che utilizzi una componente strutturale attiva.
I modelli di ponte
«semplicemente» sospeso di cui abbiamo detto perseguono una sorta di
accanimento «analitico», cioè tentano di migliorare uno schema «antico» senza rivedere
la soluzione strutturale.
Altre strade sono
praticabili e, tra queste, quella più adatta è quella proposta da Sergio
Musmeci nel suo progetto di ponte sullo Stretto di Messina che partecipò al
concorso internazionale del 1969 e fu tra i premiati.
Il progetto di Musmeci conteneva intuizioni importanti ed introdusse
innovazioni concettuali modernissime, tra cui quella di una serie di cavi
traenti stabilizzanti, un sistema che oppone una resistenza attiva, dinamica all'azione
del vento e che dà più affidabilità rispetto ad un aumento della rigidezza del
ponte.
Certo andrebbe rivisto ed aggiornato con le novità tecnologiche intervenute in
questi decenni, ma sarebbe un’ottima base di partenza. Restano in piedi in ogni
caso le previsioni di spostamento per effetto del vento, che al centro del
ponte sono dell’ordine di 15 metri con un periodo di oscillazione completa di
30 secondi.
È come se fosse un’amaca sospesa che oscilla a destra e a sinistra, e per
tornare nella posizione iniziale impiega appunto 30 secondi.
E IL FATTORE RISCHIO
SISMICO...?
Il ponte di per
sé, nelle sua parte sospesa ha periodi propri di oscillazione che non entrano
in sintonia con le alte frequenze di un sisma. Semmai i rischi maggiori riguardano
i piloni ed i possibili "spostamenti" relativi tra le due coste. A preoccupare sono
altri problemi come quelli dei giunti saldati (tutto l’impalcato del ponte è saldato
e non prevede chiodature, né bullonature) e delle sollecitazioni a cui sono sottoposti
dai binari e dal passaggio dei treni.
Nel 1969 Musmeci riuscì a ridurre la luce a 2 km con una struttura
rigida.
A congiungere
Scilla e Cariddi, pare ci avessero provato già i Romani ai tempi delle guerre
puniche. Poi il sogno di un collegamento, ponte o tunnel sottomarino, ha
attraversato i secoli.
Armando Brasini, architetto «visionario» pensò, nel 1957, ad un monumentale
ponte Omerico a più campate appoggiate su giganteschi piloni emergenti da isole
artificiali.
Ma è alla metà
degli anni Sessanta che si comincia a studiare con maggior serietà ed
approfondimento il problema dell’attraversamento dello Stretto. Nel 1969 viene
lanciato un concorso internazionale d’idee che vede la partecipazione dei
maggiori e più brillanti architetti ed ingegneri strutturisti dell’epoca.
I progetti
presentati proponevano soluzioni diverse: dal ponte a campata unica a quello a
più campate. Dal tunnel sottomarino ad un curioso e bizzarro ponte circolare,
un gigantesco anello d’acciaio sospeso tra Calabria e Sicilia.
Ma i due progetti più interessanti che si aggiudicarono i due premi principali
furono quelli di Sergio Musmeci e di Pier Luigi Nervi.
La proposta di Nervi era
basata su un sistema di cavi «a doppia curvatura»: agli ancoraggi ai piloni i
cavi partivano molto distanti tra di loro per convergere verso il centro del
ponte ad una distanza pari alla larghezza dell’impalcato.
I quattro giganteschi
piloni avevano una massiccia forma di iperboloide (tipica del linguaggio di
Nervi) e la grande distanza tra di loro costituiva di per sé un forte impatto
ambientale che suscitò, già allora, più di una perplessità.
La struttura del ponte disegnato da Musmeci era una sintesi tra il classico
ponte sospeso e il ponte strallato (gli stralli sono cavi inclinati agganciati
ai piloni e all’impalcato).
Con questo sistema
la campata «virtuale» del ponte diventava di 2.000 metri. Tutto il sistema era
irrigidito da cavi di pretensione che servivano per assorbire le azioni
orizzontali e da una fitta rete di tiranti.
I due piloni erano
formati da due coppie di antenne dalla sezione stellare a tre punte,
dell’altezza di 603 metri (quelle dell’attuale progetto sono di 370 metri). Ma,
nonostante le babeliche dimensioni, il ponte nel suo complesso, almeno nel
modello presentato, possedeva una straordinaria leggerezza ed eleganza.
LA V.I.A.
VIA è un acronimo che sta per «valutazione d’impatto ambientale».
E’ uno strumento che gli urbanisti chiamano di “discernimento” e serve a stabilire se un manufatto, fatte salve una serie
di considerazioni imprescindibili, ovvero l’opera, si può fare, se bisogna variarne la progettualità, o è irrealizzabile.
Nella fattispecie i dubbi e le contestazioni sia di carattere tecnico che di
carattere ambientale, affrontati da centinaia di attori istituzionali, associazioni
ambientaliste e singoli cittadini, sono centinaia, tutti fondamentali e tutti
irrisolti.
Si va dall'impatto
visivo delle torri (alte circa 400 metri) alle decine di milioni di metri cubi
di terra di scavo per le fondazioni da smaltire, al danneggiamento
irreversibile di alcune zone naturali di grande
pregio naturalistico come la celeberrima Costa Viola in Calabria, in cui
muretti a secco sono inseriti dall’UNESCO fra i “beni immateriali
dell’umanità”, ai laghi di Ganzirri sulla
costa sicula, in procinto di diventare patrimonio
dell’umanità dell’Unesco.
Più precisamente, “riserva
della biosfera” (Mab, acronimo dall’inglese “Man and the
Biosphere), e area protetta ai sensi della Convenzione di Ramsar (ufficialmente Convenzione
sulle zone umide di importanza internazionale).
Un altro aspetto non trascurabile e ricordato da Franco Di Majo, docente di costruzioni ferroviarie nelle università di Pisa e di Torino, in un suo saggio sui «pericoli» del ponte sullo Stretto, apparso nella rivista Realtà Nuova, è quello rappresentato dagli ancoraggi alle estremità dei cavi, ancoraggi che, scrive Di Majo «sono delle mezze montagne: 329.000 metri cubi in Sicilia e 237.000 metri cubi in Calabria.
Ciclicamente
viene affermato che il Ponte “è una grande sfida tecnologica che darà un impulso all’industria ed
all’economia italiana con un ritorno di immagine che trascinerebbe anche altri
settori produttivi”.
Ci viene detto che il Ponte è una grande opera
strategica di livello europeo per completare il corridoio Berlino-Palermo e che
serve per diminuire i tempi di percorrenza per le merci ed i passeggeri.
E allora perché l’Europa non mette un solo euro
nella sua realizzazione il cui costo sembra aggirarsi intorno alla cifra
iniziale di 6 Miliardi di Euro?
I soldini ce li mettiamo noi, attraverso le
quote statali delle FS che rischiano di accollarsi gran parte dell’onere
finanziario per la costruzione del Ponte.
Per quanto riguarda merci e passeggeri ritengo
che l’intermodalità che caratterizza oggi il sistema dei trasporti
euro-mediterraneo non giustifichi la costruzione del Ponte.
Un breve esempio.
I famosi pomodorini di
Pachino, richiestissimi nei mercati mitteleuropei, partono su un Tir da Pachino
(Ragusa) ed impiegano circa tre ore per raggiungere Messina, poi circa un’ora
per traghettare e poi circa 18-20 ore per risalire lo stivale e raggiungere la
frontiera.
Un altro Tir parte da Pachino ed in tre ore
raggiunge Palermo. S’imbarca e dopo 18 ore arriva al porto di Genova.
Risultato? I due Tir arriveranno quasi contemporaneamente con la differenza che
il primo sarà costato di più alla sua compagnia ed avrà rischiato di più
rispetto a quello che ha scelto l’autostrada del mare. Ma c’è di più.
Per restare all'esempio dei pomodorini di
Pachino, i produttori, al fine di far giungere questa specialità celermente sui
mercati del nord Italia e d’Europa, utilizzano il vettore aereo ormai da tempo,
tanto che sta prendendo corpo l’ipotesi di riutilizzare a tale scopo l’ex base
Nato di Comiso. Per quanto riguarda poi i passeggeri, dalle stime di Ferrovie
s.p.a., sono in diminuzione da anni poiché per i lunghi spostamenti i
passeggeri scelgono sempre più l’aereo, anche grazie alle campagne low-cost
degli operatori che lavorano sugli aeroporti siciliani.
Che il transito di merci e passeggeri nello
Stretto sia in netto calo lo dimostra il fatto che la compagnia dei Traghetti,
la Caronte s.p.a. continua a ritoccare al rialzo il prezzo dei biglietti. Posto
che tra Calabria e Sicilia esiste un pendolarismo nella misura di circa 15000 persone
al giorno e solo tra Reggio e Messina (che peraltro non avrebbero nessun
giovamento dalla presenza del Ponte) la questione del collegamento della
Sicilia con la terra ferma per i passeggeri e gli scambi commerciali,
oggettivamente, non giustifica la costruzione del Ponte.
Due regioni dotate di un estesissimo sistema
costiero che disattendono la facile vocazione dello scambio interportuale per
privilegiare la strozzatura dello Stretto scelgono un’organizzazione della
mobilità umana e commerciale decisamente superata.
Esclusa dunque la reale necessità di costruire
il Ponte bisognerà concludere che gli sconvolgimenti fisici e strutturali
connessi alla realizzazione dello stesso e delle opere ad esso collegate, sono
inutili quanto dannosi ad un territorio già fortemente a rischio.
Si pensi ad
esempio alle opere ferroviarie.
Attualmente i binari lungo la Costa Viola
corrono ad una quota di non più 5 metri sul livello del mare. Per adeguarli
all’altezza della campata sulla quale dovranno correre si dovrà iniziare ad
“innalzarli” da Rosarno, 60 km, con pendenza massima dello 0,1%. Immaginate da
soli cosa significa e per aiutarvi riportate la mente agli attuali cantieri
della A3.
Sul lato siciliano si ripropone lo stesso problema, se non peggio.
Ganzirri infatti è una lingua palustre e pianeggiante, perciò i binari, una
volta superata la campata, dovranno ridiscendere “sospesi” per altri 60 km per
ricongiungersi con la tratta Messina-Palermo all’altezza di Barcellona Pozzo di
Gotto.
Anche per gli ancoraggi dei tiranti esiste più
di qualche dubbio.
Se sul versante calabrese il rischio maggiore è dato dalla
estrema friabilità dei terreni, sul versante siciliano il gigantesco blocco di
cemento nel quale affonderanno i cavi che sosterranno il Ponte poggerà sulla sabbia.
Infatti Capo Peloro presenta strati sabbiosi e non rocciosi nel sottosuolo.
E il miraggio occupazionale?
Certo, l’apertura dei cantieri, il movimento terra, il prelievo di inerti dalle
cave, ruspe e camion in movimento, nell'immaginario collettivo, in questo
particolare in questo particolare territorio, suscita speranze ed induce ad
aggrapparsi a questa scialuppa. Ma facendo un confronto tra gli attuali 2500
circa occupati nell'area dello Stretto che lavorano nei vari servizi di
traghettamento ed i lavoratori che saranno impiegati a fine lavori, il saldo
potrebbe risultare negativo.
Così, tra acclarati pesanti dubbi tecnico-operativi, e priorità
inconfutabili dei territori in questione, il Ponte sullo Stretto svela la sua
natura reale, l’intima essenza della visione immaginifica di chi lo propone e
lo presenta al Mondo. Un alibi.
Solo un alibi dietro il quale
si tengono soggiogati tutti, sulla scorta del quale si acquista la devozione di
una classe dirigente, si divide irrimediabilmente l’opinione pubblica, si evita
di trattare e cercare di risolvere definitivamente gli atavici problemi di
questo territorio.
Diventa quindi preminente un richiamo ad una più attenta lettura della scala delle priorità per
questo territorio.
Reggio è divenuta Città Metropolitana per legge,
ma deve dimostrare di meritarsi questo titolo. Messina lo era già per legge
regionale. Al fine di costruire una grande Area Metropolitana baricentrica nel
Mediterraneo, unica occasione di vera crescita economica e sociale, va fissata
una scala di priorità.
Lo sviluppo delle economie locali e
l'innervamento infrastrutturale di base, unito alla sistemazione idrogeologica
e ad una più generale cura dell’ambiente naturale e costruito, sono in cima a
questa scala.
LA RISPOSTA ALLA RICHIESTA DI UNIRE I POPOLI
Se la premessa è la continuità
territoriale non ci sarebbe alcun bisogno di un manufatto pericoloso
intrinsecamente, perché mai tentato prima e sul quale bisognerebbe riflettere
per più di un secondo, visto che sopra ci passerebbero automezzi carichi di
merce e di persone. Il ricordo al ponte di Genova è automatico, e se in quella
occasione ci siamo trovati impreparati a gestire perfino la manutenzione,
figuriamoci cosa potrebbe accadere in una situazione oggettiva “ex novo”, per
mantenere al top l’intera struttura avvolta letteralmente dalla salsedine.
L’attraversamento costante dello Stretto di Messina può continuare
tranquillamente e senza sosta con un impatto infinitesimale minore: la stagione
del Green che ci approntiamo ad affrontare, giunge quanto mai appropriata e
necessaria. Si tratta di sostituire completamente la flotta che attualmente si
snoda principalmente tra Villa San Giovanni e Messina, con l’adozione di navi a
propulsione elettrica, così come avviene attualmente nei fiordi norvegesi.
In quell'area hanno già risolto dal 2018 ogni tipo di inquinamento atmosferico,
e superato brillantemente la domanda crescente di turismo sostenibile con l’e-shipping,
traghettando (è il caso di dirlo) il futuro verso esigenze non più rimandabili.
La normativa norvegese diventerà effettiva dal 2026, tanto che tutte le
maggiori compagnie di navigazione del mondo, si stanno attrezzando per non
restare tagliate fuori da un business misurato dalla “green revolution”.
Il Ponte sullo Stretto, allo stato dell’arte, avrà un costo non inferiore ai 9
miliardi di euro, impensabile da finanziare con i provvedimenti europei mirati
a risolvere urgenze di ben altro spessore sociale, mentre un rilancio
sostenibile con l’e-shipping si misurerebbe su cifre incredibilmente più basse.
La corsa all'elettrico, oltre che obbligata dalla legge è sostenuta dagli
ottimi risultati raggiunti. Dopo due anni di navigazione le emissioni sono
state abbattute del 95% e i costi ridotti dell’80%. Cifre tali da convincere anche
gli armatori più scettici…
Dal gennaio 2020 è entrata infatti in servizio una flotta di ben sette
traghetti elettrici
Quale migliore opportunità per far godere del paesaggio unico anche i turisti
che faranno la spola tra Scilla e Cariddi, accarezzati solo dal soffio del
vento?
Cosa si aspetta dunque? Si tratta di un cambio di paradigma e di passare alla
Terza Rivoluzione Industriale senza se, e senza ma.
Contributi aperti di Federico Curatola, Massimo Majowiecki,
Sergio Musmeci, Renato Pallavicini, Pino Romeo
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