La vera storia del colonnello Custer a Little Big Horn
La battaglia di Little Big Horn vista con gli occhi di Volpe Rossa.
Nel 1976 moriva a 105 anni a Corpus Christi in Texas, l’ultimo testimone oculare del massacro di Little Big Horn. Il suo nome da nativo americano era Volpe Rossa, e all’epoca dei fatti, nel 1876, aveva poco più di 5 anni. Nascosto tra la vegetazione di un albero di una collina vicina, aveva potuto seguire con i suoi occhi di bambino le fasi della tragica battaglia tra i pellerossa Sioux guidati da Toro Seduto e gli yankee del Settimo cavalleggeri comandati dal colonnello Custer.
Dal racconto del vecchio indiano - che sull’argomento scrisse anche un libro - è emersa però una verità molto diversa da quella ufficiale.
Una verità ben diversa da quella convenzionale.
La mattina del 25 giugno di cento anni fa il colonnello George Armstrong Custer cavalcava incontro al suo destino, che era quello di morire un'ora più tardi sulla riva di un piccolo fiume, chiamato Little Big Horn.
L'ufficiale avanzava impettito alla testa dei suoi uomini, ma dal passo del suo cavallo, spronato in brevi e nervosi galoppi, si poteva intuire l'eccitazione che aveva in corpo. Poco prima si era sentita una fitta scarica di fucili provenire da oltre le colline sulla destra della colonna.
“Questo è Reno che gliele sta suonando!” aveva esclamato Custer, con gli occhi che gli brillavano.
Cosi, almeno, doveva essere; il maggiore Reno si era separato all'alba dal grosso del reggimento. Il suo incarico era ben preciso: scovare il villaggio indiano che si sapeva essere da quelle parti, e in cui dovevano trovarsi i Sioux e i Cheyennes contro i quali si era mossa la spedizione, attaccarlo e metterlo a fuoco.
Il colpo decisivo l’avrebbe dovuto però sferrare Custer stesso, aggredendo di fianco la concentrazione nemica.
Questa era la grossa carta che l'ufficiale stava giocando in quel momento: battere le forze indiane con il suo unico reparto, senza aspettare l’appuntamento dell'indomani con il reggimento di Gibbon, che avrebbe dovuto chiudere in una morsa le forze indiane.
Era un piano audace: ma questo piano, non stava forse per riuscire?
Superata un'altra ansa del fiume, a Custer erano apparsi lontani le tende e i fuochi del villaggio. La sorpresa sembrava completa.
In quel momento, uno dei suoi esploratori Pawnee, mandato in avanscoperta, era apparso dall'altra parte del fiume, si era buttato precipitosamente in acqua, e aveva risalito il greto urlando qualcosa di incomprensibile. Ma Custer non aveva più bisogno di sapere niente.
Scoperto l’oro sulle colline
Custer conosceva quella guida indiana, si chiamava Faccia Mezza Gialla e quella mattina stessa aveva scambiato con lui qualche dura parola, quando aveva criticato a voce alta la sua decisione di frazionare le sue forze.
“Tu pensa a fare lo scout, che io penso a fare la guerra” gli aveva detto Custer. “Allora possiamo già considerarci tutti morti”, era stata la risposta di Faccia Mezza Gialla. Adesso pero, nel riattraversare con tanta fretta il Little Big Horn, quel Pawnee aveva indicato l'esistenza di un facile guado. Custer alzò il braccio e avanzò nell'acqua alla testa dei suoi cinque squadroni.
Occhi attenti avevano seguito l’avanzata del reparto sin da quando aveva lasciato la vallata dello Yellowstone e si era inerpicato tra le colline del Sud Montana.
Cinque settimane prima, il Settimo era partito da Fort Lincoln con l'equipaggiamento di campagna. A salutarlo c'erano militari e civili; e anche un piccolo gruppo di indiani, fra i quali non mancavano certo gli informatori. Custer era orgogliosamente alla testa del reparto, mentre una banda suonava ‘Gary Owen’, l’inno di battaglia del reggimento. Tanta passione per poco non era rimasta delusa. Solo all'ultimo momento Custer aveva avuto il benestare per assumere il comando del reparto.
Era stata una brutta storia. Custer, in sostanza, aveva avallato le accuse di peculato che da qualche parte erano state mosse al segretario alla guerra Belknap.
Si trattava di un piano per proporre alla successione di Grant alla Casa Bianca proprio lo stesso Custer. Ma andò male.
Invitato a Washington per sostenere le sue accuse, non fu in grado di reggerle. Non solo, ma si trovò invischiato nell'istruttoria di un procedimento disciplinare che lo tenne bloccato nella capitale, proprio mentre era stato l’ordine per la campagna indiana, in cui il Settimo Cavalleggeri avrebbe avuto una parte decisiva.
Solo umiliandosi in scuse, smentite e implorazioni riuscì a raggiungere Fort Lincoln, e ottenere alla fine il pieno comando della forza.
Ora cercava la rivincita sul campo. Nello stesso istante in cui Custer avvistò le prime tende del villaggio indiano, Toro Seduto avvistò Custer e la sua truppa. Il capo Sioux era troppo anziano per il combattimento, ma il suo prestigio rimaneva altissimo, ingigantito dalla fama magica di sciamano. Attorno a lui si erano strette le tribù delta sua gente e anche molti Cheyennes.
Toro Seduto sapeva che si stava giocando una partita decisiva. Di Custer conosceva tutto da quando, tre anni prima, il nome del colonnello era stato associato a una delle più mostruose stragi di pellerossa.
I soldati ai suoi ordini avevano circondato un accampamento di Cheyennes lungo il fiume Wichita ed era stato un massacro: solo fra donne e bambini, più di sessanta i morti.
Per Custer quella era stata una giornata non di ignominia ma di trionfo. Aveva chiesto che ad accoglierlo a Camp Supply fosse schierata l'intera guarnigione. La sua richiesta fu accolta e il comandante passò in rassegna alla testa dei suoi cavalleggeri... o, almeno, d'una parte di essi.
Nella foga della strage, Custer si era dimenticato d'aver mandato in esplorazione un contingente al comando del maggiore Elliott. Tornò senza di essi. Quando Elliott e i suoi vennero ritrovati dieci dopo, erano ormai dei cadaveri senza capigliatura.
La commissione d'inchiesta formulò pesanti capi d'accusa, ma ogni provvedimento fu rinviato sine die.
Del resto, non era la prima volta che Custer sfuggiva ai rigori della giustizia militare. Il primissimo infortunio, gli occorse a West Point, all'accademia militare. Per non aver sedato una rissa fra due subalterni finì davanti alla commissione di disciplina e terminò il corso ultimo, trentaquattresimo su trentaquattro allievi.
Era giovane, allora, aveva appena passato i vent'anni, ma per il figlio dell'agiato commerciante di Rumley, Ohio, che si riprometteva di seguire le orme guerresche dell'immigrato dalla Germania nonno Kuester, l’inizio non era propriamente brillante.
Più tardi, nel 1867, c'era stato un altro guaio grosso. Gli era capitato nel Kansas, ancora durante una guerra contro gli indiani. In spregio agli ordini ricevuti, Custer aveva abbandonato la sua missione, aveva persino abbandonato insepolti i morti avuti in una scaramuccia.
E tutto per correre a Fort Riley. Qui, a Fort Riley, non l’attendevano ne onori ne prebende ne comandi. C'era semplicemente sua moglie, Elisabeth Bacon che aveva conosciuto nel 1862 e che aveva sposato nel 1864. Se vogliamo, un episodio romantico, una scappatella sentimentale; ma questo naturalmente non fu il punto di vista delle autorità militari. Custer fu messo agli arresti e quindi sospeso per un anno dal suo comando.
Ancora una volta, a toglierlo dai pasticci erano state le necessità della guerra. I suoi mediocri precedenti d'ufficiale a West Point erano stati cancellati sotto il fuoco del conflitto di Secessione, scoppiato nel 1861 tra Nord e Sud.
Era stata la grande occasione per l'ambizioso ufficiale. Custer aveva combattuto a Bull Run, a Cedar Creek, era stato nell'inferno di Gettysburg, aveva condotto l'ultima carica ad Appomattox. Al comando della cavalleria dei volontari, era salito di grado in grado, sino a ritrovarsi generate di brigata a soli venticinque anni: il più giovane degli Stati Uniti.
La sua popolarità era cresciuta di conseguenza, anche perchè Custer aveva saputo saggiamente curare i suoi buoni rapporti con la stampa. Ad ogni buon conto, fu tra i pochissimi ufficiali superiori che accolsero, a fianco di Grant, la resa del comandante sudista George Lee.
La fine delle ostilità ridimensionò la figura e il grado di Custer. Adesso era un giovane capitano che mordeva il freno; nè bastavano a soddisfarlo i piaceri della caccia (accompagnò, insieme con Buffalo Bill, il Principe Alessio di Russia in una battuta nelle Grandi Pianure) o le soddisfazioni della famiglia.
Per sua buona fortuna, la marea yankee che avanzava verso il West di pari passo con la ferrovia aveva fatto riesplodere la tensione con gli indiani. Custer fu subito impegnato.
Durante una sortita, aveva risalito le Colline Nere, nel Wyoming. Era l’estate del 1874. Fu Custer a scoprire che in queste alture c'erano giacimenti d’oro.
E cosi siamo giunti ai motivi più immediati della spedizione che le forze degli Stati Uniti d'America muovevano, nel giugno 1876, contro le tribù Sioux e Cheyennes.
Otto anni prima, a Laramie, un solenne trattato aveva lasciato agli indiani ampie riserve tra il Montana e il Wyoming.
Ma di fronte all'oro, chi aveva intenzione di rispettare i trattati?
E di fronte all'uomo bianco, chi rispetta l’uomo rosso?
Ai pellerossa fu dato I'ordine di sgombero entro il 31 dicembre 1875. Era la guerra.
Sulle Colline Nere presto brulicanti di cercatori e avventurieri si accese la lotta che culminerà duecento miglia a nord-ovest, sulle rive di un piccolo fiume chiamato Little Big Horn.
Quando Custer ordinò ai suoi 214 uomini di avanzare e per primo entrò nelle acque gelide del fiume, riteneva di esser prossimo al trionfo; era invece ormai molto vicino al disastro.
Dal sottobosco della riva antistante era improvvisamente partita una scarica di pallottole e di frecce. Le prime perdite si erano avute proprio nell'alveo del fiume Little Big Horn.
I soldati non avevano ancora fatto in tempo a rimettersi dalla sorpresa, che urla selvagge e uno scalpitare di cavalli si erano levati a monte dell'acqua. Un turbine di indiani, guidati da Cavallo Pazzo, caricava contro il Settimo Cavalleggeri.
La battaglia durò meno di un'ora
La faccenda era andata per le spicce. Custer aveva ordinato di ritirarsi su un'altura sovrastante, ma pochi ci arrivarono. La situazione fu subito disperata.
Custer ebbe il tempo di vergare un messaggio che consegno a Martin, il trombettiere del reggimento. “Portalo al maggiore Reno”, ordinò.
“A li mortacci!” aveva esclamato il soldato, sfuggendo per miracolo ai colpi d'un paio di indiani che lo avevano inseguito.
Avvenne cosi che l’unico superstite della strage di Little Big Horn fu un italiano, Giovanni Martini, romano, che da ragazzo aveva marciato con Garibaldi nel 1866.
Egli raggiunse l’altro troncone del reggimento e capì che nessun aiuto avrebbe potuto venire da quella parte per Custer. I colpi che si erano uditi lontani nella prima mattinata non stavano a indicare che Reno aveva attaccato gli indiani, ma che gli indiani avevano attaccato Reno, inchiodandolo sul posto.
“Tutto durò” - raccontava Volpe Rossa – “non più di quaranta minuti. I bianchi furono fatti a pezzi, non riuscirono a organizzare nessuna resistenza. Dopo un po' qualcuno aveva incominciato ad alzarsi e a gridare: "Sioux! Non uccideteci!". Qualche altro aveva rivolto la propria arma contro se stesso. Anche Custer? “Si, anche lui. Non fu ucciso. Si uccise. Portava al fianco due grosse pistole, due Bulldog inglesi. Fu trovato con una nella mano destra, vicina al suo capo e la tempia era fracassata da un colpo. No, non fu scotennato”.
E una curiosità: ‘Chioma-bionda’, ‘Lunghicapelli’, - cosi lo chiamavano gli indiani - si era fatto radere per nascondere l'incipiente calvizie.
La notizia del disastro scatenò il furore di rivincita: i Sioux vittoriosi non avrebbero passato il successivo inverno come uomini liberi.
Si scateno anche l'epica encomiastica. ‘Custer's Last Stand’ è l’oleografia famosa di un pittore Cassidy Adams, che mostra il colonnello mentre si difende all'ombra della bandiera. Un produttore di birra, Adolphus Busch, compro addirittura l’immagine e ne fece il marchio del suo prodotto.
Molti anni più tardi, il cinema si impossessò della figura dell'istrionico, feroce colonnello, chiamando i registi più bravi - da Griffith a Ford, da Walsh a De Mille - a esaltarne la memoria facendone però un eroe positivo.
Come attori furono scelti i più belli di Hollywood: da Errol Flynn a Henry Fonda, senza dimenticare Ronald Reagan che dell’America fu guarda caso presidente… proprio quello che voleva diventare Custer.
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