La Musica e le Parole



Musica e parole
Con la parola musica viene indicato genericamente ogni fe­nomeno acustico regolato da leggi proprie, e determinato dal particolare modo di esprimersi, sia di un singolo individuo, quan­to di un gruppo, o di tutta una collettività, in relazione al parti­colare momento storico in cui esso si manifesta. L'approfondi­mento degli studi ha confermato che la musica si pone alle ori­gini delle arti come espressione immediata delle prime associa­zioni umane. Lungo il corso dei millenni la musica si è distinta in generi, cioè ogni sua forma (o tipo) è nata e si è stabilita come espressione adatta ad una certa categoria di persone, ad un determinato ceto o classe sociale, ad una ben delineata cor­rente culturale.
Pertanto ogni genere di musica conserva i caratteri peculiari del­la sua nascita, dei suo rango e li proietta nel tempo, anche quan­do cambiano le sue destinazioni esterne, regolate da nuove ope­razioni culturali. È certo che chiunque si avvicini oggi alla musica è investito da un complesso di problemi che non si presenta­vano alle passate generazioni. Ogni genere di musica vocale e strumentale (dall'antica alla contemporanea, dalla sacra alla dotta. dalla popolare alla « folk » e alla leggera) è penetrata, tramite i mezzi odierni di diffusione, nella vita di tutti i giorni.
La radio, la televisione, il disco, il nastro magnetico e tutti gli altri strumenti forniti dalla tecnologia elettroacustica, hanno in­gigantito la possibilità di fruizione di un materiale sonoro che mai in precedenza si sarebbe potuto mettere a disposizione di ogni ceto sociale.
Nella maggior parte dei casi, però, è una mu­sica che conserva la sua natura elitaria, legata ad una classe egemonica propria o del passato o del potere economico attuale. Manca ancora la musica per le grandi masse, una musica che si ponga essenzialmente come voce corale, come arte capace di accompagnare le espressioni più intense dell'attuale vita asso­ciata.
Una musica totale, che nasca dall'uomo per l'uomo, sulla base di tutte le culture musicali preesistenti, in un libero impulso creativo. Una musica popolare scritta per la massa, ma che non tralasci ciò che può aver valore anche per un solo uomo, e che sia protesa verso una nuova civiltà.
Eppure un precedente c'è; lo troviamo in un genere musicale per lo più ignorato fino a pochi anni or sono dalla musicologia ufficiale: il folk, riscoperto da musicisti e studiosi verso la fine dell'800.
Essi però, pur rivalu­tando la musica popolare europea, hanno posto in primo piano la musica africana e di altri « primitivi », che unica persisteva co­me rottame di tutto l'immenso bagaglio artistico che si era per­duto nel corso dei millenni.
Generi musicali ritenuti inferiori divenivano d'un tratto degni d'attenzione: la cosiddetta musica popolare non poteva più es­sere considerata tale, ma uno spiraglio aperto su una realtà cul­turale sinora disprezzata od ignorata, mentre dall'incontro tra folk negro e la musica dei bianchi d'America nasceva il  jazz.

Naturalmente il fenomeno ha avuto il suo contraltare immediato: il  folk  ed il  jazz assurgevano alla dignità di strumenti culturali, e come tali contrabbandati quale merce tra le più decorose del consumismo moderno. Come tali dilagavano su ogni mercato, subivano il deterioramento dell'impatto con le industrie culturali, e si ingentilivano , perdendo quello che avevano di popolare, di autentico, per assimilare moduli e fra­sari propri della musica leggera e di quella dotta.
Nel momento in cui la musica popolare appariva come una delle voci autentiche delle classi subalterne, le generazioni giovanili ne scoprivano il potere rivoluzionario, contestatario nei confronti dell’establishment politico: l'incontro tra la cultura « under­ground » e la musica  folk  divenne un fenomeno tra i più at­tivi e stimolanti, uno di quelli che maggiormente hanno lievitato nella musica moderna.


La musica e la rappresentazione dell'attività umana di Sidney Finkelstein
L'organizzazione dei suoni in immagini umane fu una creazione della primitiva vita tribale. In questo periodo i mezzi di produzione, i territori per cacciare e pescare e le terre da coltivare costituivano un possesso comune; la soddisfazione dei bisogni uma­ni, la caccia, la pastorizia, l'agricoltura costituivano l'occupazione sociale di tutta la tribù.
La natura, an­cora inesplorata e selvaggia, appariva agli uomini un insieme di forze viventi, potenti e misteriose. All'uso del fuoco, che segnò il primo riuscito tentativo dell'uo­mo di padroneggiare le forze naturali, alla creazione della lancia, della freccia, della ruota, della barca, del vaso, le tribù primitive aggiunsero il tentativo di dominare la natura per mezzo di riti magici e collettivi.
Que­sti riti combinavano poesia, musica e danza in un tutto di cui facevano parte anche la pittura del corpo e le maschere per il viso. Il fondo magico di tutto ciò era la credenza che, imitando o simbolizzando le miste­riose forze della natura con figure, gesti o parole, gli abi­tanti della tribù potevano realizzare il loro dominio su queste forze. Con la scoperta di attrezzi più perfezio­nati e con la conoscenza scientifica del mondo, la magia divenne ancor più fantastica e degenerò nella supersti­zione, ma nella vita primitiva aveva un fondo di utilità. Essa era un mezzo per organizzare il lavoro collettivo della tribù, le attività pratiche come la pesca e la caccia, e, nello stesso tempo, costituiva un primo tentativo di comprendere la natura. Vi erano riti per la caccia, la guerra, la seminagione, il raccolto, l'iniziazione dei gio­vani e cerimonie perla sepoltura dei morti. Ognuno aveva le proprie danze e i propri canti.
La vita primitiva aveva canti e danze differenti per ogni occasione: per la caccia, la guerra, il raccolto, i viaggi, l'amore, il sonno e tosi via. Dall'impiego di questi mo­delli musicali definiti per le varie attività sociali sorse poi la fantasia musicale, la capacità di evocare, attra­verso la frase musicale, le immagini di azioni o di sen­timenti che vi sono legati. È una questione assai dibat­tuta se la fantasia musicale sia legata alle condizioni sociali o se sia basata soltanto sulle caratteristiche fisi­che del suono. Essa non può essere prodotta che da en­trambi questi fattori.
Segnò un grande progresso (che forse avvenne già nella vita primitiva) il giorno in cui i canti  non furono più soltanto cantati, ma suonati su strumenti, come le siringhe, pur conservandosi il significato delle parole e dei sentimenti che esse esprimevano originariamente.
Con ciò la musica ha fatto una lunga strada dal canto parlato, o dal semplice ricalco delle intonazioni e de­gli accenti del discorso, come dal nudo impulso del mo­vimento ritmico. E tuttavia, la chiave per comprendere l'espressività della musica, compresa quella strumen­tale, è il fatto che vi è permanentemente incorporata l'inflessione della parola, il movimento del corpo e la fantasia sorta dal contatto della musica con quasi tutte le attività della vita.
È un elemento necessario per una cultura musicale in progresso che la musica, assieme alle forme imponenti che produce, sia usata anche dal popolo per i suoi canti, per accompagnare la danza, la marcia, le attività del lavoro e gli altri aspetti della sua vita quotidiana. In questo modo l'umanità della rappresentazione musicale, la chiave del suo contenuto, viene confermata dal popolo con l'uso che egli ne fa.
Al comunismo primitivo delle tribù seguirono le so­cietà schiavistiche. Queste società produssero dei lavoratori altamente specializzati, la maggior parte dei quali erano schiavi, fra cui c'erano anche abili musici­sti. Apparvero complicati strumenti musicali, la cui co­struzione fu resa possibile dall'aumentata abilità nella lavorazione dei metalli, del legno, della pietra e dalle maggiori conoscenze nel campo della matematica.
Que­st'ultima rese possibile il calcolo esatto del tono degli strumenti, stabilendo con precisione il diametro dei flauti e delle corde e il posto esatto per i buchi. E que­sto sviluppo strumentale fece si che anche la voce e l'orecchio venissero allenati ad afferrare e riprodurre più esattamente i suoni.
Queste società attribuirono ancora alla musica poteri magici e la impiegarono nei riti. Questi, però, non era­no pili una manifestazione collettiva del popolo, ma ve­nivano organizzati dal clero nell'interesse del re e della nobiltà per confermare la credenza che i grandi pro­prietari di schiavi. non erano ordinari mortali ma dèi e discendenti di dèi.
Esistono anche attualmente composizioni che posso­no darci un'idea dei caratteri della musica antica. Ad esempio: la musica rituale dell'India con centinaia di disegni ritmici e melodici, chiamati ragas e talas, ognu­no dei quali è associato ad un significato particolare: un dio, una « passione » come il coraggio o la pace, un periodo del giorno e cosi via.
Cosi pure si possono ci­tare i canti liturgici ebraici con i loro liberi arabeschi vocali. E vi è tuttora una ricca tradizione di improvvi­sazioni poetico-musicali, comprendenti interi poemi epi­ci tra i popoli dell'Asia. Vi è il flamenco del folclore spagnolo con le sue intonazioni commoventi come la pa­rola e i suoi ritmi intricati di chitarra intessuti attorno alla voce.
Vi sono i blues creati dai negri degli Stati Uni­ti tra la fine del diciannovesimo e l'inizio del ventesimo secolo. Questa musica ha radici antiche ed è nello stesso tempo moderna in quanto riflette sentimenti e lotte che appartengono anche all'umanità odierna.

Teoria, forme, tecniche musicali della società schiavisti­ca e della società primitiva si proiettano lungo tutto il Medioevo e il Rinascimento, evolvendosi lentamente. Con i nuovi e talvolta prestigiosi sviluppi di forma e contenuto esse si rivolgono ad un pubblico eclettico, riflettendo e realizzando un'immagine completa della vita umana e delle sue particolari caratteristiche.
L'egemonia esercitata dalla teologici su tutte le forme di pensiero, non esclusa l'arte, ed il riconoscimento da parte della Chiesa cristiana dei titoli di nobiltà spettanti per diritto divino alle ,imperanti classi dirigenti, favori­sce lo sviluppo di quel concetto eurocentrico della cul­tura, di cui tuttora sentiamo le ripercussioni.
Infatti per secoli gli Europei hanno preteso un primato mondiale di potere e di cultura, e anziché allargare le conoscenze europee con l'analisi parallela di altre culture aventi storia, principi e funzioni sociali ben diversi la loro, hanno imposto ai colonizzati mezzi linguistici ed espressivi propri, hanno soffocato, spesso viole mente, la loro resistenza fino a distruggere ogni dice (culturale, storica, geografica, economica) originaria.
Non tutti i popoli dominati dagli Europei hanno rifiutato o completamente dimenticato la loro civiltà. Anche se in un primo momento essi avevano accettato l'imposizione dei colonizzatori, si sono in seguito rii lati alla falsità della loro posizione. In un ricordo di t ancestrale, essi hanno riproposto una loro identità baie, anche se fusa con elementi propri della cult dei colonizzatori, e, secondo un tempo storico dive; una diversa funzione sociale e mezzi tecnici più progrediti.



Il canto di protesta degli schiavi negri di Sidney Finkelstein
Il  più efficace contributo creativo alla musica popolare degli Stati Uniti fu dato dalla musica negra. Un ricco apporto venne dall'Africa, testimonianza delle cult distrutte dal commercio degli schiavi. Questa eredità musicale africana, assorbendo le parole e la musica gli inni trovati sul suolo americano, produsse il meraviglioso corpo degli spirituals, sorti dal 1830 al 1860 come arma di lotta contro la schiavitú.
Essi erano un mezzo per affermare la solidarietà tra i negri; servi per trasmettere messaggi e ordini dell'organizzazione clandestina, erano canti di guerra e inni religiosi di un popolo per cui la religione aveva un significato soltanto nella misura in cui sosteneva la sua lotta coni schiavitú.
Proprio perché la lotta antischiavistica costituiva un progresso per la democrazia di tutto il paese, gli spirituals sono diventati la musica popolare più amata da tutto il popolo; anche se molti, pur restando commossi dalla bellezza e dalla efficacia degli spirituals, ignorarono la natura della lotta che li ha prodotti. I veri spirituals rappresentano il canto col­lettivo per antonomasia e si perpetuano per tradizione orale senza schemi musicali o poetici prefissati.
Negli ultimi decenni del secolo diciannovesimo e nei primi del ventesimo, si sviluppò il blues, e inoltre nelle comunità negre delle città fluviali e nei porti del Sud, quali Savannah, Saint Louis, Memphis e New Or­leans, una notevolissima musica strumentale chiamata rag o ragtime.
Questa musica strumentale era essen­zialmente composta di marce e di danze, ma, nella sua organizzazione formale e nell'intreccio polifonico di li­nee melodiche, superava largamente le esigenze ordina­rie della danza.
Si serviva di strumenti da banda mili­tare, come trombe, clarinetti e tromboni, ed era ricca di qualità melodiche e liriche in cui si esprimeva il con­tenuto umano dell'esperienza della vita e delle sue lotte presenti e passate.
Si trovavano cosi in questa musica tanto gli elementi della tradizione popolare quanto quelli derivati dall'abilità acquisita dai negri come suonatori di piano, di violino e di altri strumenti nelle sale da ballo dei ricchi bianchi.
S. Finkelstein, Come la musica esprime le idee, Fel­trinelli, Milano, 1955.

Il jazz, partecipando alla battaglia del pensiero e cantando
i nuovi concetti di dignità umana, entra come parte integrante nella vita culturale e sociale del '900. André Francis descrive in forma concisa le vicissitu­dini del popolo negro che, dopo tre secoli di schiavitú, riesce a staccarsi dai colonizzatori e ad informare, se­condo una propria sensibilità, le maggiori correnti mu­sicali del '900.




La preistoria del jazz  di André Francis
Dopo tutto quello che si è scritto sul jazz ci si è trovati d'accordo nel ritenere New Orleans il luogo di nascita di questa musica. Dal punto di vista strumentale la tesi è sostenibile, ma prima di diventare musica da ballo il jazz è stato canto, ritmo, poesia e religione. Le sue ori­gini sono complesse e oggi quasi impossibili da rintrac­ciare con esattezza. Di questa appassionante avventura musicale si conoscevano soltanto pochi frammenti.
Nel 1619, quattordici negri provenienti dal Congo o ' dalla Costa d'Oro sono venduti come schiavi a certi co­loni della Virginia. Intorno al 1917 le prime orchestre di jazz, provenienti appunto da New Orleans, comin­ciano a incidere dischi. Nel tempo che intercorre tra queste due date i ritmi africani si purificano, inizia l'av­ventura del blues, il canto degli spirituals e fiorisce il primo boogie-woogie.
Tre secoli (dei quali non possediamo altro che scarse testimonianze poco convincenti, brevi relazioni di viag­gio, racconti romanzati con molta fantasia) saranno ne­cessari affinché lentamente si sviluppi la musica originale d'un complesso afro-americano.
I primi schiavi portavano naturalmente con sé il ricordo della loro lon­tana Africa, il culto di divinità completamente diverse da quelle popolazioni abitanti la costa centro-atlantica dell'Africa, dei ritmi interminabili e, nonostante le nu­merose differenze d'idiomi, un fondo linguistico co­mune.
Prima d'imparare a rispondere, a parlare approssimati­vamente la lingua dei loro padroni, anzitutto degli. Olandesi situati nell'odierno Stato di New York, poi dei Francesi della Louisiana e degli Inglesi nel resto del paese, prima d'abbracciare una nuova religione (il cat­tolicesimo per un certo periodo nella Louisiana fino al 1892, poi il protestantesimo che si estese dovunque), il negro, lo schiavo non troverà niente di più imme­diato per soddisfare la nostalgia per l'Africa che le an­tiche danze ancestrali.
Se le estasi magiche create dalla ripetizione instancabile degli stessi motivi ritmici sem­brano uguali a quelle dell'Africa, le figure e gli scopi della danza sono ben differenti. L'incontro nel crogiuo­lo della schiavitú di Africani di origini diverse pro­duce, fin dai primi contatti, avversioni e rivalità.
Soltanto a poco a poco uno pseudo-popolo afro-ameri­cano, per via delle mescolanze tra negri di provenienze diverse e persino d'incroci tra le varie razze (inutile no­tare che si trattava quasi esclusivamente di relazioni tra il padrone bianco e lo schiavo negro), prese forma e co­lore.
Le sue sfrenate poliritmie africane si trasformano giorno per giorno in qualcosa di nuovo. Ora, in un am­biente edulcorato rispetto a quello africano ma ancora esplosivo, si svolgono a New Orleans in una piaz­za ormai storica, Congo Square, lunghe feste con inter­minabili danze in tondo.
Dal sabato alla domenica sera, aiutati dall'alcool, spinti dalla carica sessuale, i suona­tori negri di tamburo risvegliano nel sangue dei loro fratelli l'esaltazione del selvaggio feticista e avvertono i bianchi che una nuova musica sta per nascere.
È stata la lingua inglese che ha permesso ai negri afri­cani di creare quella particolare fonetica che è alla base dell'elemento primordiale del jazz: lo swing. Le voci dei negri sono nell'insieme gutturali ma anche dolci. 1 loro idiomi originali, molto disarticolati, fanno un gran­de uso di consonanti; le loro parole ci sembrano strap­pate, trattenute o sorvolate. Trovandosi alle prese con le lingue latine in cui l'accentazione di solito è diversa dall'inglese, i negri non ne modificano sensibilmente l'accento; questa facilità di pronuncia non la ritroveran­no invece nella lingua inglese. Essi allora si trovano a rendere inavvertibili le sillabe deboli e per contrasto ad accentuare le toniche principali. Questo spostamento d'accento, questo anticipo sul tem­po del ritmo, questa strana oscillazione sarà una figura precorritrice dello swing, un'immagine molto embrio­nale di quello che uno sfruttamento musicale rivelerà pienamente soltanto con l'apparizione di un maestro: Louis Armstrong.

Il negro spiritual
Parallelamente al fatto linguistico, le religioni praticate dai bianchi ebbero un'influenza indiretta ma determi­nante sulla genesi della musica dei negri deportati in America. La religione cattolica, specialmente agli ini­zi, si mostrò favorevole alla schiavitù, perché secondo il suo « Codice nero » questo era il miglior mezzo per far entrare in seno alla Chiesa la gente di colore.
Le danze dei negri divertivano i Latini che concessero loro di esprimersi liberamente. Poiché la Chiesa cattolica li­mitava ad assistere alle sue funzioni la partecipazione dei fedeli, si sviluppò nascostamente uno strano paganesimo voodoo, in cui i santi cattolici erano associati alle divinità del Dahomey.
I negri si divertivano a cantare in creolo temi eterogenei semiancestrali, in parte derivati dai musicisti del momento francesi o spagnoli.
Da parte inglese e protestante, la situazione era com­pletamente diversa, anche differente da quella delle nu­merose sette religiose riformate. Le chiese protestanti erano meno organizzate di quella cattolica; durante le funzioni si ascoltava il sermone e dopo si cantavano canti religiosi di libera scelta. La libertà che si con­cesse ai negri di celebrare Dio secondo il loro desiderio li convinse ad accettare la religione protestante.
In altre parole, Dio era celebrato in un linguaggio a tutti comune e non in una lingua morta come il latino. Questo fatto permise di cantare Dio secondo il loro spirito e perfino secondo qualcuna delle loro tradizioni.
Si hanno poche notizie sui metodi dei primi evangelisti bianchi, sui loro mezzi di persuasione e sulla pratica delle loro cerimonie. Dipendevano strettamente dalla tradizione liturgica delle chiese riformate o grazie alla libertà acquisita dall'accrescersi delle sette religiose, so­no state immediatamente adattate al nuovo pubblico da convertire? Questo non ci interessa.
Ci sembra in­vece evidente che molto presto i negri sono stati lasciati liberi di praticare la religione da loro scelta e che i nuovi sacerdoti negri, mentre facevano rinascere con le loro prediche il tono imprecativo ancestrale, sono sta­ti indulgenti verso i loro fedeli e più tardi anche verso i primi cantori.
Il pastore solista ha cominciato col com­mentare un brano biblico verso per verso, in seguito ha invitato i fedeli a farselo ripetere. All'inizio si svolgeva con un tono di voce naturale, poi la tensione aumen­tava e certe frasi venivano più violentemente pronun­ciate.
La profonda respirazione del pastore, accentua­ta da una specie di gemito che serviva a facilitare l'emissione di aria dai polmoni, ha accresciuto il po­tere emotivo della sua predica e ha contemporaneamen­te dato vita ad una nuova ritmica. Poi, col solo mezzo della parola, del contrasto esistente fra il predicatore e le esclamazioni dei fedeli, attraverso un gioco collet­tivo di domande e risposte, è scaturita un'austera me­lodia originale dai contrasti ritmici. A contatto della lingua inglese, la fonetica  negra era già diventata una forma pre-musicale. In chiesa essa scivolava senza ac­corgersene verso un canto vero e proprio.

Nascita del blues
I primi musicisti che si distinsero durante il periodo della guerra di Secessione furono dei cantanti di vicende dolorose. La guerra con le sue conseguenze, le malattie, la carestia, il banditismo, la liberazione degli schiavi, e in seguito lo sviluppo economico e la nasci delle prime linee ferroviarie, eccitavano l'ispirazione dei poeti popolari.
Come i nostri trovatori, i suonatori negri andavano di città in villaggio e cantavano accompagnandosi alla chitarra. Fino al giorno in cui i primi blues furono raccolti e incisi, un intero e appassionante capitolo della preistoria del jazz si svolse nell'ombra. Ci troviamo ancora nel periodo degli interrogativi e forse rimarremo sempre fermi alle nostre attuali cono­scenze.
Anche ricercando tra le forme poetiche di ci­viltà africane, o tra i canti religiosi o di lavoro degli Stati Uniti, non troveremo che molto raramente temi dialogati o ripetuti, e non saranno mai in un modo cosi felicemente ritmico come nel blues.
Accontentia­moci di rilevare che il blues si è formato prima del 1900 e che circa a questa data (che segna anche l'ap­parizione del jazz strumentale) ci si è trovati di fronte al fatto compiuto: l'affermazione di una musica origi­nale capace di contenere e trasformare ogni cosa. Per la sua stessa etimologia , il blues (che noi traduciamo come stato di malinconia e di depressione) è un canto d'abbandono, di disperazione o di lirica tristezza.
Ciò nonostante, la sostanza ha superato la forma, e a questo modello si sono fusi in continuazione altri sentimenti. Alcuni blues appaiono allegri, ironici, sarca­stici e anche rivendicatori.
Da lenti li abbiamo visti trasformarsi fino ad essere suonati in tempi veloci (qua­le il boogie-woogie) e persino nel jazz moderno in ul­traveloci.
A. Francis, Il jazz, Mondadori, Milano, 1958),


Secondo André Francis l'elemento fondamentale per lo sviluppo del « jazz » è la presenza delle lingue latina, inglese e creola a New Orleans. Altri invece fanno d questa città la culla del jazz in virtú del particolare spirito internazionale che in essa si andava sempre più sviluppando nella seconda metà dell'800.

Il notevole afflusso di immigrati di razze diverse, l'incontro e lo scontro dei loro apporti culturali, l'accre
sciuto numero dei luoghi di divertimento, favori­scono infatti liberalità ed indipendenza in ogni ceto sociale. Marce, fanfare, quadriglie francesi, originali com­posizioni pianistiche e forme di canto negro, vengono riproposte da musicisti improvvisati con elementi ritmi­ci sobbalzanti e con strumenti di fortuna: da queste riunioni estemporanee e dalle prime prestazioni dei negri in occasione di cerimonie pubbliche, sfilate, e soprattutto funerali, nascerà il più originale ed istin­tivo repertorio jazz.

Tutto ciò che vi è di creativo nel « jazz » veniva da gen­te semplice, che considerando la musica come un mezzo di lotta, trasfondeva in essa la propria umanità, il pro­prio diritto di vivere, amare, gioire, soffrire come ogni altro essere umano.

Tuttavia quest'arte, sviluppatasi di pari passo con il processo dell'industrializzazione, non è diventata per il negro un'affermazione di libertà e di unità popolare, né base di una più vasta cultura nazionale, ma un nuovo e pericoloso mezzo di sfruttamento manovrato dalla so­cietà industriale.

La nuova tratta dei negri negli anni ruggenti del jazz 
di Sidney Finkelstein. 
Fra il 1900 e il 1930 sorse un gruppo di personalità dotate di grande talento creativo come Scott Joplin, Ferdinand Morton, Joseph Oliver, Bessie Smith, Lilian Hardin, William Handy e Louis Armstrong. La loro musica si serviva ancora di schemi tradizionali popo­lari, ma aggiungeva alla musica popolare del passato valori nuovi.
La ricchezza di creatività personale e di espressione, la conoscenza musicale, lo scambio vivo di idee fra i vari musicisti la portò al livello cosiddetto « artistico » della composizione. Questi cantanti, suo­natori e scrittori di canzoni riuscirono a porsi alla testa dei compositori americani, sviluppando il loro talento in condizioni ragionevoli e umane. Il loro compito fu però considerato soprattutto quello di “divertire”, nel senso più volgare della parola, un pubblico composto di bianchi, animati da spirito, razzista, che li costringeva spesso a mascherare le loro funzioni di musicisti sotto il ruolo di pagliacci. È sempre stato vero della musica folcloristica e lo è del jazz, il fatto che la natura rudimentale della materia cui la musica popolare si serve, i doppi sensi, il linguaggio oscuro, rendono possibile la trasformazione di quest'arte in una grottesca imitazione diretta contro il popolo stesso. Così le riviste musicali della metà del secolo diciannovesimo, presentate da attori bianchi col volto annerito, erano una perversione grottesca della musica negra.
Similmente il jazz, nel suo sviluppo commerciale, ricavò le sue forze e le sue fresche energie dalla musica negra, ma la formalizzò alterandone la nato originale con eccessivo rilievo alla forma esteriore spogliata del suo significato sociale. Negli anni tra il 1910 ed il 1920 la pubblicazione di musica popolare stava diventando un grosso affare ed era ancora aperta al creazione nuova. Molte canzoni di compositori negri divennero popolari, e innumerevoli altre canzoni erano in realtà arrangiamenti di musica negra anche se la fonte non era citata; i principali compositori bianchi, con George Gershwin, Hoagy Carmichael, Vincent Youmans e Richard Rodgers furono profondamente influenzati dalla musica negra.
Le canzoni popolari di questo periodo, sebbene rivelino già nella musica la forma rigidamente standardizzata di Tin-pan Alley e risentano della edulcorazione della censura, nelle parole (come è avvenuto di tutta la musica popolare pubblicata), sono rimaste insuperate.
Tra il 1930 e il 1940 la canzone e la danza popolari, entrarono nell'orbita del monopolio passando alle dipendenze delle grandi compagnie di dischi fonografi dell'industria del cinema e della radio. Eppure, anche in questo periodo, furono essenzialmente i musicisti negri quali Edward Kennedy Ellington, William Basie, Theodore Wilson e Mary Lou Williams che lottarono per conservarsi musicisti creativi, trasformando il jazz in una forma d'arte per quanto era possibile nei limiti di una danza o in una incisione fonografica di tre minuti e producendo quel sottile rivo di musica autentica e veramente bella fra le montagne di rifiuti del jazz commerciale.
Questa lotta fu condotta in un ambiente in cui ogni nuova idea era oggetto di ostilità da parte degli impresari commerciali, solo per essere rubata, formalizzata ed edulcorata per farne il « successo » degli anni seguenti.
In questo periodo i musicisti negri erano i peggio pagati, più disoccupati, e nella maggior parte dei casi, salvo rare eccezioni, messi al bando dalle or­chestre bianche.
S. Finkelstein, Come la musica esprime le idee, Fel­trinelli, Milano, 1955

Mentre il  jazz  si diffonde in tutto il mondo, più o meno plagiato dalla società dei consumi, verso il 1950 prende auge in America una nuova voga: il rock and roll .
Un'istintiva frenesia di vita, mista allo scontento ed alla rabbia, spinge le nuove generazioni americane a cercare nella «cruda» musica dei negri quella sincerità e spon­taneità di espressione che la società borghese aveva or­mai soffocato.
Favorito dai potenti mezzi di comunicazione, il pensie­ro dei giovani si diffonde in tutto il mondo.


Il ritorno degli anni ruggenti: la rivalsa dei giovani di Mario Maffi
Dapprima fu il jazz. In quanto espressione d'una cul­tura oppressa, era un linguaggio più che adatto ad esprimere le emozioni, il vasto, delicato e spesso tra­gico mondo interiore dei giovani di quegli anni. La negazione di norme e regole, il carattere fortemente aggressivo, l'affermazione di rivolta, e dall'altra parte l'odio e l'incomprensione che s'attirava dai benpensanti, dagli squares, (gli abitanti del centro cittadino) dai borghesi, erano già elementi più che sufficienti ad avvicinare i giovani ad esso.
Inoltre fra i suoi protagonisti, essi trovarono gli « idoli » che cercavano: modelli di sregolatezza, di intensità emotiva, di energia vitale e la vena sotterranea - e non sempre solo sotterranea - di violenza: rivolta contro l'esterno (la società) e contro l'interno (se stessi).
L'esempio più forte e travolgente è quello di Charlie « Bird » Parker, padre del be-bop dedito ad alcool e stupefacenti, prestigioso protagonista degli anni '40 del jazz: vita e morte e musica giocate sempre sul pia­no della ricerca, della violenza, dell'emozione, dell'in­tensità.
Ancora una volta, però, per il teen-ager, si trattava di una componente culturale preesistente, legata a una generazione immediatamente precedente alla loro: po­tevano aderire al suo linguaggio, alla sua esperienza emotiva e vitale, alla sua sostanza, alla carica di nega­zione e protesta; ma non era qualcosa di loro, creato da loro stessi a proprio uso e consumo, e in fin dei conti era l'espressione d'una realtà sociale ben diversa, cui riuscivano ad avvicinarsi i giovani intellettuali bian­chi ma la cui comprensione era troppo difficile per la gran massa dei teen-agers: l'espressione della rabbia e della ribellione era un elemento che essi comprendevano istintivamente, ma non potevano andare oltre a que­sta comprensione istintiva e in ogni caso non si trattava della loro rabbia, della loro violenza, della loro ama­rezza.
Cosi il be-bop ebbe valore e peso solo fino a un certo punto, e solo fino a un certo punto entrò a far parte della « cultura adolescente »: fu una componente essenziale piuttosto della beat generation e dell'attività dei giovani intellettuali bianchi di quegli anni, che non della vita dei teen-agers.

A questo punto nacque il rock 'n' roll'.
Il rock 'n' roll deriva dalla fusione tra musica country and western e blues; ma è soprattutto quest'ultimo che vi sta alla base.
Il blues è un dialogo continuo all'interno della comu­nità di colore, il cui portavoce, il blues singer, non si pone mai al di sopra o al di fuori d'essa (nella tradi­zione dell'artista occidentale borghese), ma - pur creando i versi e la musica - è come se s'annullasse in quanto individuo: si esprime in prima persona, ma le esperienze che narra sono quelle tipiche della comu­nità, quelle che ogni individuo che ne faccia parte po­trebbe avere.
È dunque la collettività la vera protago­nista del blues: alienazione, solitudine, forzata mancan­za di rapporti stabili tra i due sessi, eros,
insoddisfa­zione, vagabondaggi, violenza, tutti temi che ricorrono, rivissuti nell'esperienza quotidiana riferita alla comuni­tà ed assumono significato universale (non nel senso reazionario, idealistico del termine; universale, in quan­to sostanza della vita d'un certo settore particolare della popolazione americana, e più precisamente di una classe - quella proletaria - che supera le limitazioni nazionali, culturali, geo-politiche).
M. Maffi La cultura underground, Laterza, Bari ­1972


Personaggi patetici si avvicendarono sulla scena de rock anni cinquanta, esaltati da un facile successo , presto accantonati. Il più noto fu certamente Bill Haley. È a lui che va il merito di aver portato il rock ad una massa enorme, di aver favorito il processo di scoperta d'un'identità da parte del teen-ager. Sarà proprio lui, però, la prima vittima di quella campagna pubblicitaria che segnerà l'entrata del rock  nel monde degli affari e l'integrazione al sistema della subcultura di massa.


La mercificazione del rock di Mario Maffi
Tin-pan Alley, come viene chiamata Madison Avenue, il quartiere degli affari nuovayorkese che si occupa del la musica leggera, come Denmark Street a Londra vide cosi aprirsi un'enorme riserva di caccia. Si trattava ora di sfruttare questa riserva, sorvegliando attentamente il nuovo gusto e la muova mentalità e lavorar do con un astuto meccanismo di azione e reazione, ai dando incontro ai teen-agers e nello stesso tempo manovrandoli, creando nuovi idoli in base alle loro aspirazioni e gettandoli sul mercato con un'astuta manovra pubblicitaria.
Fu un processo sottile e inarrestabile.
Dagli inizi genuini del rock nei primi anni del '50, giunse all'alba dei Sessanta, e nel frattempo il rock si era distaccato dal blues e aveva cosi perso quanto di più istintivo, sincero, erotico, emozionale e contestativo aveva agli inizi; s'era ridotto a una squallida storia di mercato, di investimenti, di pubblicità, di programmi radio-televisivi comprati per lanciare questo o quel cantante, di idoli fasulli, di formule musicali vuote, di sentimentalismo insulso.
L'entrata del rock nel mondo de­gli affari segnava la sua trasformazione in espressione musicale presentabile, ripulita, accettabile secondo i canoni borghesi: in perbenismo musicato.
Il rock aveva perso ogni forza, ogni consistenza, era stato let­teralmente castrato; la carica erotica e vitale era stata imbrigliata, repressa, soffocata; il mercato aveva risucchiato la prima genuina espressione giovanile.
Madison Avenue aveva fornito un'identità di gruppo ai giovani tra i quattordici e i ventun anni (i teen-agers), e quest'identità di gruppo portò a qualcosa come una coscienza di gruppo e ciò a sua volta « diede origine a una valutazione critica e in certi casi emozionale del mondo come era stato modellato dalla generazione pre­cedente.
Il capitalismo, noto per la sua brama di mer­cificare ogni tipo di sovversione a condizione che ci sia una possibilità di profitto, cominciò ad offrire ai teen­agers tutta una serie di eroi: « dapprima del genere che pensava andasse bene loro, ma più tardi, sempre più in vista del profitto, forni loro un tipo d'eroe adatto al crescente atteggiamento iconoclasta dei giovani.
Questi antieroi venivano tratti dalle schiere degli sban­dati della generazione precedente: Marlon Brando e i suoi motociclisti in Il selvaggio erano stati ispirati dalle bande di veterani di guerra, incapaci di reinserirsi nella società stabile e pacifica.  
Ma prima che l'industria musicale si impadronisse del rock, prima di arrivare a quel Giano bifronte che è Elvis Presley (idolo del rock e del mercato, provocante-rispettabile), prima di quegli anni di svuotamento e impoverimento quasi totale del grande filone musicale, ci fu un denso periodo in cui apparvero i grandi di questo genere, personaggi ge­nuini, immediati, autentici artisti che si rivolgevano ai teen-agers senza diaframmi affaristico-pubblicitari, sen­za manipolazioni ed ingrandimenti di managers e talent­scouts.
I loro « fenomeni » non erano mai prefabbricati, la carica emotiva e l'entusiasmo delle loro esibizioni erano autentici, non studiati o ricercati, nella tradizione più pura del blues e del jazz più disinteressati espressioni immediate di un'esperienza e di un periodo riflessi in un certo settore della popolazione americana.
Le canzoni di Chuck Berry, Little Richard (Penniman) Fats Domino, Jerry Lee Lewis, Gene Vincent, Eddie Cochran, ecc., ricreano l'ingenuità del teen-ager, la su mentalità, il suo gergo, il suo codice di comportamento, il suo mondo fatto di sabati sera, balli, cinema in ultima fila con la ragazza, sesso incompleto e turbolento. Chi li scriveva era in contatto diretto (mental­mente ed emozionalmente) con il proprio pubblico: a volte rozzi, inarticolati, espliciti fino alla goffaggine, spesso superficiali, i grandi del rock erano però estre­mamente sinceri e disinibiti, privi di qualunque artifi­ciosità, le antenne sensibilissime d'un nascente settore della popolazione, e produssero una vera, fondamen­tale espressione musicale.
Fondamentale al punto da ri­manere il termine di paragone più immediato, la vera forza sotterranea di tutta l'esperienza successiva, la boa d'avvicinamento o d'allontanamento dalla quale poteva significare la validità o meno (e sempre il significato) di esperimenti musicali; e la dimostrazione viene pro­prio dal fatto che al rock 'n' roll si ritorna verso la fine del '60 e gli inizi del '70, dopo esperienze svariate e più o meno valide e divergenti.
M. Maffi, La cultura underground, Laterza, Bari, 1972.


E’ solo verso 1960, però, che il rock and roll, spo­standosi in Inghilterra, assume un volto decisamente di protesta, staccandosi definitivamente dalla cultura uffi­ciale. La protesta si manifesta successivamente su scala internazionale come resistenza di una generazione che acquista coscienza delle varie forme di manipolazione a cui è soggetta. Sul piano musicale, trionfa il beat.


Liverpool: la New Orleans d'Europa di Rolf  Ulrich Kaiser
Liverpool potrebbe corrispondere a New Orleans cosi com'era all'inizio del secolo. Racconta Mike Evans, sas­sofonista dei Clayton Squares nonché saltuariamente studente di sociologia e poeta: “Il benessere del porto, sviluppatosi sui profitti del cotone e dello schiavismo, in quanto tradizione cosmo­polita per la vita di questa città, vi gioca lo stesso ruo­lo dominante che aveva giocato allora a New Orleans la città natale del jazz. Liverpool non somiglia a nessun'altra parte del Lancashire, la lingua e il tempera mento privi di ogni apprezzabile rapporto con le forme d'espressione delle città vicine, sono un miscuglio di elementi inglesi, gallesi e irlandesi. Data tale struttura della popolazione, il caratteristico bisogno d'indipendenza della gente di Liverpool è praticamente inevitabile: sin dall'infanzia le si inculca l'idea di essere in un, certo senso gente speciale”.
Liverpool è il centro del Merseyside, un'area che concentra più di un milione di abitanti. La città stesse conta oggi circa 500 mila abitanti; nel 1931 ne contava circa 850.000. A quell'epoca la crisi economica internazionale fu per Liverpool un colpo dal quale non si è più ripresa.
Gli attacchi aerei tedeschi durante la seconda guerre mondiale distrussero il centro della città assestandole il secondo, durissimo colpo.
Benché nel frattempo a Liverpool si siano insediate nuove industrie, lo spavento è ancora nelle ossa, le ferite non sono ancora rimargi­nate. Sotto la superficie continuano ad esistere le tensioni sociali; il clima di lavoro è  - a detta di molti - pes­simo; gli slums e i quartieri poveri non sono affatto stati eliminati. Liverpool è una miccia per conflitti, un vespaio di problemi irrisolti.
In questa Liverpool spuntò la stella della nuova mu­sica.  
Il livello medio del pubblico corrisponde abbastanza quello dei suonatori. Li accomuna il fatto di essere giunti a questa musica senza nessuna preparazione specifica. I suonatori lavorano come apprendisti, decoratori, falegnami, commessi di drogheria, radiotecnici, tipografi, segretari di studi legali, stampatori; studenti universitari sono in minoranza. Le barriere sociali erano abolite, non esistono privilegi culturali.
Il gruppo più famoso sarebbe stato quello dei Beatles. Vivevano in gruppo, lavoravano in gruppo, e forse questo consisteva il loro segreto. In precedenza ciascuno di loro, a casa, a scuola con i compagni, aveva fatto di testa propria ed era stato il capo. Nel gruppo invece, doveva di punto in bianco aver riguardo degli altri e accettare limitazioni alla propria individuali Questo processo, consolidato senza dubbio dal duro lavoro svolto prima nei clubs e poi durante le tourneé li aveva saldati insieme in una vera unità.


Il loro, però, non è un caso unico; semmai lo sarebbe per la durata della loro attività comune. Proprio il grup­po è una caratteristica di una parte della nuova musica pop. A crearla, infatti, non sono soltanto i grandi sin­goli, i solisti, anche se spesso comuni del genere fini­scono per sciogliersi e alcuni musicisti vogliono lavorare esclusivamente da soli. Il lavoro è diventato assai com­plesso, la scelta di ciò che può essere prodotto è ricchis­sima. I gruppi sono costituiti in parte da comuni in parte da unioni molto fluttuanti. Un gruppo nasce per caso come per caso si allarga o si restringe. Ma quasi sempre il caso è strettamente collegato all'impostazione creativa dei musicisti.
«Per dieci anni, dal 1956 al 1966, i Beatles» come osserva Hunter Davis « hanno vissuto non solo una vita in comune ma hanno vissuto in comune la stessa vita ». Fin da quando si conobbero e divenne di moda fare insieme della musica a Liverpool, quando nac­quero i numerosi complessi-comuni, già allora si parlava di una grande comunità beat. Il beat voleva dire un piccolo regno a sé. La jam session  aveva rotto i confini del jazz-club invadendo l'intera città.
« Ma poi » prosegue Ringo Starr «vennero le case disco­grafiche con i primi contratti, ebbe inizio la mercifi­cazione e di colpo suonare fra noi senza inibizioni non fu più cosi semplice». 1 vari manager badavano ciascuno al prestigio del proprio complesso. La comu­nità si spezzettò in tante piccole cellule.
R. U. Kaiser, Guida alla- musica pop, Mondadori, Milano, 1971.

Quanto precedentemente era avvenuto per il jazz ed il rock., si è verificato anche per il beat: alla sua entrata nel mondo degli affari ne sono conseguiti un perbenismo ed una ripulitura dettati dai canoni borghesi.
In alternativa alla mercificazione degli impulsi della beat-generation sorgono tuttavia altre ispirazioni culturali che proclamano la loro estraneità al sistema tanto che verranno definite underground (sotterranee), per significare il loro rifiuto dei canali normali di diffusione. Negli Stati Uniti la « beat-generation scopre le antiche civiltà decimate dai loro diretti pro­genitori, e le filosofie orientali. Le civiltà maya, azteca, inca, e lo zen informano la controcultura dell'un­derground fintanto che, ripiegato su condizioni di co­modo, esso non verrà superato dall'underground po­litico, o movement.
Attaccando a fondo i tabú borghesi, la cultura « under­ground » cerca una nuova forma comunicativa abbatten­do ogni settorialismo e ogni diaframma separante pit­tura, musica, teatro e cinema e ritorna alla concezione di una poetica intesa come rito di comunicazione col­lettiva. In questa fase anche la musica ritorna indietro, al « blues », al « jazz », e riscopre il canto popolare co­me espressione più viva di ogni cultura del popolo. Ma simbolo degli anni sessanta rimane la protesta clamo­rosa, espressa anche attraverso la musica.


Anticonformismo e droga per le stelle della musica «beat»
di Rolf Ulrich Kaiser

I Beatles erano diventati famosi grazie al loro duro rock-sound  che tuttavia, col passar del tempo, avevano ammorbidito adottando una linea melodica più orecchiabile. A poco a poco i loro testi e le loro melodie gettavano un ponte verso la generazione più anziana. 1 Rolling Stones invece colpivano in faccia proprio quella generazione, ergendosi a difensori dei « giovani ri­belli ».
Lo dimostravano con il modo disinvolto di usare ripe­tutamente come gabinetti i distributori di benzina e le porte dei garage. Lo dimostravano con i loro processi per uso di stupefacenti, processi che scatenarono vio­lente proteste da parte della stampa inglese benpen­sante: non dovevano dimenticare di essere dei divi, de­gli idoli, e di avere perciò una responsabilità ben pre­cisa e l'obbligo di rispettare i limiti della propria liber­tà. Mick Jagger  rispose che non gliene importava nien­te perché lui e i suoi amici vivevano come volevano:
“Divi e celebrità del genere non dovrebbero occuparsi di questioni morali. Chi siamo noi per giudicare cosa è bene e cosa è male? Che senso può avere”.


Nelle loro canzoni i Rolling Stones predicano un'altra morale invitano al « viaggio » con la droga o cantano: « Dormiamo insieme stanotte ». In principio si vestivano a modo loro senza sottomettersi alle regole divistiche: capelli lunghi e trascurati, calzoni sudici e logori.
Per tutte queste ragioni, dal punto di vista commerciale, ebbero maggiori difficoltà dei più accomodanti Beatles; per esempio il loro disco Flowers  non ver ne molto spinto perché in quel momento si svolgeva contro di loro il processo per la droga. Scrive Bob Dawbarn: “Gli Stones erano esattamente il contrario dei Beatles. Mentre i Beatles diffondevano un'atmosfera di intelligenza ben temperata e di generale amabilità, conquistando cosi i genitori, gli Stones con le loro chiome arruffate, con quella ventata di ribellione generale che li circondava, spaventavano tutti quelli che avessero superato i 25 anni”.
I Beatles si sono raccomandati ai genitori come bravi e buoni coeducatori. I testi delle loro canzoni, seppur sinceri, sono facilmente integrabili nel generale processo educativo. Gli Stones, invece, non pensavano al fatto a ripulire i loro testi dalla screanzata malizia ch li pervade.
La differenza fra i due complessi stava nel loro diverso pubblico. Almeno dalla fine delle esibizioni di Liverpool in poi, i Beatles non hanno più fatto della musica per un pubblico specifico di giovani, ma dell'entertainment elettrico per chiunque pretendesse di esser moderno.
I Rolling Stones hanno invece continuato a rivolger al loro pubblico di giovani, le cui azioni più rilevanti nella seconda metà degli anni sessanta, erano le dimostrazioni, l'opposizione al sistema autoritario della società in cui vivevano. Gli Stones avevano fiutato questo processo e vi si erano adeguati con una canzone s la frustrazione generale (Satisfaction), con la pretesa emancipazione sessuale (Let's spend the night together), con l'inno commerciale alla rivoluzione (Streetfighting man).
Pur non avendo assolutamente nulla a che fare con vere azioni sociali della giovane generazione, gli Stones puntarono sulla vena progressista e imbastirono canzoni-surrogato, insomma sfruttarono commercialmente la lotta di strada.
L'uso della droga provoca conseguenze penali. Gli im­putati più popolari furono i Rolling Stones, mentre i Beatles e altri divi del pop li difesero. « I'd love to turn you on », vorrei mandarti in orbita, questo l'augurio espresso dai Beatles in A day in the life, che hi BBC proibì ai suoi disc jockeys di trasmettere.
R. U. Kaiser, Guida alla musica pop, Mondadori, Milano, 1971.
La seduzione del « sistema », dell'integrazione nel pote­re economico è sempre stata la grande nemica dell'un­derground. Dopo l'esplosione dei primi anni, colmi di entusiasmo ed ottimismo, quasi inavvertitamente il pop si è trovato agganciato alle esigenze produttive e ideologiche dell'industria. Solo quando la radicalizzazione ha toccato nel 1968 anche i « figli dei fiori » lo « underground » è passato dalla sperimentazione e dal­la non-violenza alla caotica ma necessaria politicizza­zione.

Politicizzazione delle correnti sotterranee: gli anni settanta e il  movement
di Mario Maffi

Si aprono gli anni settanta, e il termine under­ground (che deriva dal nome di una  ferrovia sot­terranea che servi­va all'espatrio clan­destino degli schiavi dal Sud all'estremo Nord dell'America Settentrionale), almeno per quanto riguarda il connotato ori­ginario, diventa improprio: perde infatti ogni significato strettamente culturale, cessa d'essere il termine di­stintivo di quel settore del dissenso affidato alla parola scritta, all'immagine cinematografica, al gesto teatrale, al segno grafico, all'esperimento culturale o sociale hip­py e s'allarga ad abbracciare tutta quella realtà che, con finalità e vie diverse, dissente dal sistema america­no e propone soluzioni e modi di lotta.
La cultura si fonde e si subordina alla politica; l'underground esiste sempre, con le sue strutture e creazioni vivificate da questo contatto con la politica radicale, ma entra a far parte d'un corpo ben più vasto alla cui formazione partecipa tutta una varietà d'indirizzi: il « movement ».
Il « movimento » è il nuovo fronte del dissenso negli anni settanta: un fronte farraginoso e proteiforme in cui confluiscono le istanze più lontane e disparate. Si passa dunque dalla politica riformista e settoriale del­le organizzazioni studentesche e dalla apoliticità appar­tata degli hippies, al caotico e frenetico impegno po­litico su basi che vengono mutuate un po' da tutto il panorama e da tutta la storia della sinistra.
In questo apocalittico attacco al sistema si cerca di su­perare ed annullare definitivamente i punti morti della tradizione-anni sessanta del dissenso interno: non-vio­lenza, individualismo, visione romantica dell'impegno politico. Ma se è stato relativamente facile scardinare il mito piccolo-borghese della non-violenza, quello altrettanto piccolo-borghese dell'individualismo resiste ed entra con forza come componente del movement, trascinando con sé il proprio figlio legittimo: la rivoluzione come impresa romantica, come richiamo alle ge­sta d'un personaggio; e il nipote deforme, la varietà di numi tutelari, indizio d'una incertezza teorico-ideo­logica di fondo.
Gli strati geologici del dissenso sono esplosi, frantu­mando ogni tendenza alla cristallizzazione e al settoria­lismo, e nel caos frenetico cercano di trovare una linea comune e determinante, collegata alle lotte internazio­nali: è questa l'enorme realtà del movement. La base anarchica impedisce il delinearsi - almeno per ora - d'un partito, e favorisce il decentramento, esalta l'in­dipendenza dei gruppi pur nel fine comune ed unico.
M. Maffi, La cultura underground, Laterza, Bari 1972

La formazione di gruppi sempre più politicizzati in  ogni parte del mondo agisce da molla potentissima ne processo di crescita delle organizzazioni studentesche Attrezzature molto complicate e costose vengono acquistate per la composizione non già di musica colta, ma per portare al parossismo l'urlo sgorgato dal « beat ».
La preparazione Culturale dei componenti dei vari complessi permette loro di sfruttare tutti i segreti dell'elettronica, al fine di esaltare il contenuto artistico e politico dei loro canti.

Pop come politica di Rolf Ulrich Kaiser

Lo spettacolo dei Fugs
Si procurano degli strumenti, Naphtali “Tuli” Kupferberg racimola un mucchio di cianfrusaglie e due grosse valigie nere per ri­porle. Mettono insieme uno show nel quale Tuli illustra l'azione con pupazzi, manifesti, pagliacciate ecc. Il cast è un tipico cast beat. Prima d'ora i Fugs hanno fatto solo qualche volta degli esperimenti musicali. A­desso producono uno show completo, uno spettacolo a se stante di un'ora e mezza. Dopo i primi dieci minuti almeno una dozzina di benpensanti lasciano la sala scos­si e perplessi. Kupferberg cosí commenta: “Ovviamente noi vogliamo che tutti vedano il nostro spettacolo. E proprio quelli che se ne vanno sono prbabilmente quelli che hanno più bisogno del nostro messaggio. Ma è inevitabile: non lo possiamo mutilare per far piacere a loro; tutto bello e gradevole non avreb­be più alcun senso.
Però riusciamo a trascinare molte persone dalla nostra parte; succede ogni sera. All'inizio dello spettacolo c'è molta incertezza e nervosismo. Qualcuno se ne va - per via del gergo, delle allusioni sessuali o forse anche del nostro indirizzo politico -, gli altri invece si guar­dano attorno con fare nervoso per vedere cosa fa il vi­cino. E poiché c'è sempre chi trova tutto divertente, chi applaude, anche loro ridono, dapprima timidamen­te e poi di cuore. Cominciano a capire, e dopo un po' anche loro applaudono. Ecco come qui da noi avviene una specie di processo educativo”.
Lo spettacolo dei Fugs è eminentemente politico. Lo di­mostra la critica sociale, per esempio, della canzone Nothing, nella quale al successo idolatra­to dalla società USA si oppone la negazione totale del nothing. Lo si capisce chiaramente quando i Fugs mar­ciano in testa ai dimostranti di New York e Tuli Kup­ferberg dagli USA scrive in Germania: “Le nostre azio­ni incalzano. Sarà emozionante e splendido, se soprav­viviamo a tutto. Noi siamo probabilmente il gruppo rock più politico degli USA. Io ero rivoluzionario già prima che nasces­sero i Fugs. Ciò che facciamo attualmente è una specie di propaganda nel migliore senso della parola; infatti non siamo dei realisti socialisti. I miei obiettivi rivo­luzionari sono l'anarchia, il pacifismo anarchico e il comunismo. Spero in una società senza classi”

Pop di guerriglia
Non viene cantato ma gridato, monotono come un an­nuncio, ripetuto sempre uguale con un ritmo piatto: “We want the world to be free!”. “Anche se oggi avete ancora i fu­cili, domani il mondo sarà libero”.
Viene ripetuto, poi attacca con fragore la prima cascata d'organo, che vie­ne smorzata, inghiottita dalle chitarre. Continua in que­sta maniera, qua e là un assolo di chitarra, ogni tanto uno slogan. Ma certamente non è quello che si suole definire buona musica. Eppure questa musica è impor­tante. Fin dentro al loro ritmo piatto o a quello stu­pendamente insensato Papa-Oo-Mao-Mao queste canzo­ni hanno un legame con la nostra vita d'oggi. Il 33 giri “Disposable”dei Deviants (cui si riferisce questa parte del brano), indica 19 persone come autori dei 13 pezzi.
Una di esse è Mick Farren che in molti suoi articoli si è battuto per una musica pop e musicisti pop che non abbiano più scritto « vendibilità » sulla loro bandiera.
Deforma la canzone All together dei Beatles cantando: “Andiamo a incendiare il supermercato!”.
A Londra Mick Farren incita al « pop di guerriglia », poiché « la musica pop è uno degli ultimi strumenti liberi ». Nella prima fase s'era trattato di trovare dei complessi pop; ora poteva iniziare la seconda fase.
“Vogliamo andare con i complessi pop nelle strade e nei giardini pubblici. Centinaia di ballerini in un pome­riggio di sabato sono più efficaci di una dozzina di mar­ce di protesta. Ma ci occorre aiuto. Se conoscete spiazzi liberi, parcheggi, parchi di ricreazione, un posto con qualcuno vicino che ci dia la corrente elettrica, fatecelo sapere”.
(R. U. Kaiser, Guida alla musica pop, Mondadori Milano, 1971)

Uno dei fenomeni più intensi di politicizzazione musi­cale si è avuto proprio nel jazz , con l'avvento del co­siddetto free jazz (" jazz libero). L'intuizione maggiore di questo movimento è data dall'accentuazio­ne di tutti quegli aspetti del  jazz che favoriscono la libera creatività e la spontanea esecuzione anteposte al­la codificazione del ritmo in regole coercitive, sempre uguali. Il passaggio al free jazz si accompagna non a caso ad una maturazione della coscienza politica e delle lotte di liberazione della minoranza negra, che ri­scopre i propri caratteri culturali originali, afro-ame­ricani.


La presa di coscienza dei musicisti afro-americani di Giacomo Pellicciotti
Attorno alla musica e al suo mondo sono state sempre erette, come barriere false e artificiali, svariate catego­rie e classificazioni di comodo, che si sono consolidate negli anni fino a divenire vere e proprie istituzioni. Venti anni fa pur in mezzo a tante sfumature e colora­zioni, i mass media facevano mostra di sapere esatta­mente se un brano musicale apparteneva all'impero del­la classica, al reame del jazz, al principato del folk, alla mafia della leggera o a chissà quale altro dominio. Ma adesso i cardini cigolano arrugginiti e le porte si stan­no aprendo: in mezzo a manipolazioni commerciali fur­bissime, si va ogni giorno di più affermando una sana tendenza che vuole e ricerca una musica libera, che respiri, viva e umana, con parecchi interscambi tra dif­ferenti linguaggi e culture musicali di paesi lontanissi­mi tra loro. Una musica totale.
Ma se la lotta ancora è aperta ed ardua, diversi sono i fatti e gli elementi che hanno condotto alla situazione odierna, e non si tratta sempre di motivi solo e rigida­mente artistico-musicali. Per averne la prova, basterà riflettere un po' su uno dei fenomeni più importanti de­gli ultimi anni: quel movimento della musica afro-ame­ricana a cui è stata appiccicata l'etichetta (tutto negli USA viene etichettato ed inscatolato come una merce...) di Free Jazz  o New Thing.
Che la musica negra si sia mossa costantemente negli USA in un background  che è andato al di là del puro oggetto musicale, sconfinando spessissimo nei ri­svolti di carattere socio-politico, è un dato di fatto documentabile con numerosissimi esempi. Basta pensare a certi blues di Bessie Smith, di Big Bill Broonzy e di centinaia di altri cantori (conosciuti e non) dello sfrut­tamento e dell'asservimento della gente nera da parte del potere bianco. Oppure ci si può ricordare di Billie Holiday, la grandissima cantante che lottò tutta la vita contro una condizione di inferiorità, rimanendone purtroppo vittima (esemplare rimane ancor oggi il suo ter­ribile grido di accusa in Strange Fruit ).
Poi venne il bop e Charlie Parker ne fu l'apostolo più geniale, più sfortunato, ma pure quello che, nei mo­menti di lucidità, dimostrò quant'era consapevole di essere tenuto in una condizione disumana insieme alla sua gente.
Ma durante gli anni '50 gli esempi si moltiplicano, a mano a mano che le condizioni sociali si trasformano e che il popolo nero acquista una sempre più matura consapevolezza. Il batterista Art Blakey con i suoi jazz Messengers si richiama espressamente all'Africa; il sas­sofonista Sonny Rollins registra una composizione dal significativo titolo di Tbe Freedom Suite 4; il bat­terista Max Roach con la sua fierissima moglie di allora, la cantante Abbey Lincoln, rincara la dose con la for­tissima We Insist: Freedom Now Suite! s; infine (ma di esempi ce ne sono parecchi altri) il focoso bassista Charlie Mingus schernisce con violenza il razzi­smo con il suo beffardo Original Faubus Fables 6. Ma ormai i tempi sono maturi: sta nascendo un nuovo modo di fare musica, più libero, più coraggioso, più radicale, più cosciente, più politicizzato... Alla fine del 1960, proprio quando John F. Kennedy vince le ele­zioni presidenziali, 1'altosassofonista Ornette Coleman registra con una formazione inedita, un doppio quar­tetto, un'opera rivoluzionaria che occupa entrambe le facciate di un album. Si chiama Free Jazz e sarà il manifesto e l'emblema prestanome di tutta una scuola e un'epoca.
Nelle avanguardie più consapevoli si sviluppa un alte livello di coscienza politica: le rivolte nei ghetti neri si susseguono con ritmo impressionante.
E se in passate la denuncia e la protesta hanno sempre affiorato ne migliori esempi del blues e del jazz, ora che la coscienza politica e più forte e generalizzata nel popolo nero, tale spirito di rabbia e di rivolta non può non essere conti­nuamente presente e determinante nella musica nera de­gli anni '60.
Al di là di tutte le spiegazioni formalistiche e tecniche, a cui sono ricorsi i numerosi critici ufficiali (quelli che ancora oggi purtroppo detengono il potere sui mass me­dia più diffusi e compromessi con l'industria musicale), il grido di protesta del popolo nero era il motivo e la spinta dominante che informava e permeava la nuova musica, il Free Jazz o New Thing (o con chissà quale altro nome la si voglia chiamare). Solo pochi scrittori più direttamente e correttamente coinvolti in quel mon­do capirono sul serio, e guarda caso i primi furono proprio afro-americani.
Leroi Jones anzitutto, con libri come Il popolo del blues e Black Music, oppure A. B. Spellman con numerosi saggi. In Europa ci si ar­rivò più tardi, sulla scorta di tali precedenti, ma fi­nora si possono contare con le dita di una mano quelli che hanno impostato il problema su basi rigorose e cor­rette ideologicamente.
Un libro come Free Jazz / Black Power dei francesi Carles e Comolli, pur con una certa rigidità e intransigenza, è molto vicino alla meta nel tentativo di ridare alla musica nera, e alla New Thing in particolare, un volto più reale, più sociale, e meno falsamente e superficialmente jazzistico e ba­sta.
Ma i tempi e le situazioni procedono rapidamente: la situazione politica muta, le lotte più violente e radicali vengono riassorbite dal potere dominante, i neri per­dono i loro migliori leaders, il capitale riprende fiato per un po'...
Anche la colonna sonora cambia. Il tempo della rivolta più aspra cede il passo ad un paziente lavoro di rico­struzione critica, sulle basi precedentemente edificate proprio dagli uomini della New Thing. C'è ancora tem­po per il contrabbassista bianco Charlie Haden (siamo nel 1969), il compagno fedele di Ornette Coleman, di costituire una formidabile orchestra dall'inequivocabile nome di Liberation Music Orchestra.
Ci sono quasi tut­ti (Cherry, Barbieri, Rudd, l'altro colemaniano, Dewey Redman, la Bley e tanti altri), che producono una mu­sica i cui riferimenti politici non si possono affatto igno­rare.
I temi scelti da Haden per l'occasione sono i canti della guerra di Spagna, la morte di Che Guevara, la repressione delle manifestazioni pacifiste durante la convenzione democratica 8 di Chicago. Uno dei risultati più sintetici e completi di un movimento che ha ormai lasciato delle tracce indelebili e profonde non solo su tutta la musica afro-americana, ma su più o meno tutti i tipi di musica attuali.
Ed è cambiato pure il modo di considerare la musica, mai più uno strumento passivo d; diletto per le orecchie e per gli altri sensi, ma un com­mentario sonoro vivo e partecipe, legato in modo indissociabile alla realtà sociale e politica del presente.
Grazie al lavoro rivoluzionario degli uomini della New Thing, gli ultimi giovani musicisti neri si sentono svin­colati. Il jazz è uscito finalmente dal ghetto. Il jazz è morto. Sta facendosi strada finalmente la musica totale!
E i vecchi critici arteriosclerotici non sanno consolarsi, né rassegnarsi: dicono che il Free Jazz è finito, morto e sepolto, e che in fondo è stato cosa da poco. Non c'è bugia più squallida e falsa, poiché la musica di tutto il mondo non è più la stessa dopo allora. E mai la musica afro-americana ha avuto più ampia rilevanza so­ciale.
(G. Pellicciotti, inedito per Generazione zero, 1974).


Lungo il corso dei secoli il canto popolare (etnico) e sempre stato trasmesso oralmente e considerato « res nullius », cosa di nessuno. Solo di recente l'etnomusico­logia si è interessata a fondo del problema ed ha impie­gato mezzi notevoli al fine di salvare quanto restava di un patrimonio culturale che ha vissuto notevoli tra­versie. A Roberto Leydi va il merito di aver saputo raccogliere, nel momento storico più favorevole un va­sto repertorio di canti appartenenti alle varie regioni italiane.



La musica popolare di Roberto Leydi
Fino a pochi anni fa problema chiuso nell'attenzione di alcuni specialisti isolati, la musica popolare pare oggi approdare alle sponde del successo, della moda, forse anche del consumo di massa.
Se ieri l'ansia dei pochi che credevano al significato di provocazione culturale delle manifestazioni attive del mondo popolare era, da un lato, di realizzare la più ampia e compiuta raccolta possibile del materiale (per colmare un gran vuoto e per inseguire il disfacimento del tessuto tradizionale) e dall'altro di spezzare l'emarginazione e rompere i de­crepiti schemi accademici del folklore per inserire la loro problematica nel dibattito vivo, oggi la loro preoccupazione è di contrapporre alla mondanizzazione alienante e alla mistificazione consumistica del folk il rigore di un intervento senza spazi per le ambiguità, gli equivoci, gli esiti della logica del profitto e del successo.
C'è certo da dire che la moda del folk ha in­vestito una parte soltanto del materiale comunicativo popolare, quello cioè che era riducibile a canzonetta o cabaret e quello in cui la forza provocatoria non e pre­potentemente emergente, ma anche in questi limiti il processo di intorbidamento e di inquinamento dell'in­dustria della musica porta conseguenze assai gravi, ingenerando confusione e, soprattutto, mortificando il na­scente interesse di moltissimi giovani per la musica popolare e per quanto questa musica testimonia.
Que­sto interesse si colloca - secondo il mio giudizio - nell'am­bito di quella generale insoddisfazione « del pubblico giovane per quanto riguarda sia i contenuti delle canzoni di consumo sia le forme musicali » ma anche nel filo di una più ampia e profonda presa di coscienza della realtà, delle contraddizioni in cui i giovani si trovano a vivere, del bisogno ansioso di autenticità, tut­ti elementi che la musica di consumo non è in grado (e non vuole) di rendere manifesti.
Naturalmente nel gioco entrano, con violenza, altre componenti, messe in moto dall'industria del diverti­mento e dal sistema consumistico le cui capacità di uti­lizzare commercialmente ed esorcizzare culturalmente le istanze autentiche dei giovani sono ormai enormi, fino al punto di impedire all'ansia vera dei più di ren­dersi conto della strumentalizzazione di cui sono vittime.
In questa logica, la spirale della ricerca del pro­fitto (soprattutto in una situazione di tipo coloniale qual è quella della musica di consumo in Italia) allarga sempre di più le prospettive di sfruttamento delle istan­ze del pubblico per farne una moda allargata a un con­sumo sempre più vasto.
Già oggi vediamo come, in Italia, l'industria discografica e la RAI-TV cerchino di coprire l'intero arco delle possibilità commerciali del cosiddetto folk per includere sia un pubblico che pre­sume di sapere scegliere, sia quel pubblico che ormai a scegliere ha rinunciato. Di qui i molti livelli apparenti del folk commerciale, da un genere apertamente canzonettistico a un genere falsamente « autentico », da un genere apertamente evasivo a un genere pretestuosa­mente impegnato.
Ai margini il lavoro dei pochi can­tanti che operano, faticosamente, nel filo del folk re­vival, rifiutando il condizionamento commerciale e anche la strumentalizzazione politica contingente e vol­gare. Il loro impegno è quello di operare per una nuova circolazione non alienata, nella realtà contemporanea, della comunicazione popolare; non recupero consumi­stico ma inizio (se possibile) di un procedimento ritro­vato di espressione autonoma dalla subcultura impo­sta dall'egemonia; contributo alla fondazione di una nuova cultura per una nuova società.
Il folk revival si colloca, quindi, come componente di un più ampio movimento che coinvolge anche, nelle sue connotazioni ideologiche, la ricerca etnomusicolo­gica.
La ricerca etnomusicologica più avanzata, infatti, ha ormai acquisito coscienza che l'interesse per la musica delle culture orali tradizionali può applicarsi lungo un arco molto esteso che va dalla ricerca specialistico-formale (di carattere musicologico), alla ricerca in ambito antropologico, sociologico, filologico, storico, psicologi­co ecc. e addirittura confluire nell'intervento attivo a livello di azione/ provocazione culturale e politica.
Alla scienza etnomusicologica, cioè, si possono chiede­re gli strumenti per una corretta lettura degli oggetti comunicativi orali-tradizionali formalizzati dalla musi­ca; per una definizione formale dei sistemi strutturali entro i quali gli oggetti comunicativi si collocano; per il riconoscimento comparativo dei vari « sistemi ». Ma si possono chiedere anche alcuni strumenti primari o integrativi per identificare la dinamica generale delle culture altre, siano esse fuori o dentro il nostro ter­ritorio geografico e culturale; per cercare di cogliere il segno non contingente  della lotta di classe e delle lotte di liberazione; per verificare l'estensione dell'autonomia delle culture che furono dette subalterne; per leggere le linee di talune trasformazioni socio-culturali già av­venute o in atto; per intervenire nella restituzione del patrimonio comunicativo ai popoli e alle classi che esco­no (o cercano di uscire) dalla subordinazione, sia essa quella colonialistica o quella sociale.
In altri termini, la ricerca etnomusicologica può essere assunta come strumento meramente formale (ma non per questo neutrale) di comparazione  fra sistemi diversi e astrattamente dichiarati fra loro eguali  (prolungamento della dichiarazione d'eguaglianza fra tutti gli uomini delle costituzioni liberali) e proporsi quindi, in concreto, come superficiale compensazione ai nostri rimorsi eurocentrici; oppure come strumento di effettivo intervento per la restituzione dei mezzi co­municativi (compreso il controllo dei veicoli di tra­smissione) ai loro legittimi proprietari cioè ai popoli che ne sono stati spogliati.
Dal tipo di domanda che alla disciplina etnomusicolo­gica vien posta ne deriva, ovviamente, una differente prospettiva ideologica e pratica nella ricerca, un di­verso atteggiamento verso il rapporto testo/contesto, in definitiva un modo « altro » di collocarsi nell'inda­gine e di fronte all'indagine. Ne consegue anche una diversa utilizzazione delle metodologie, degli strumen­ti di ricerca, di identificazione e di interpretazione, del­l'assieme dei mezzi che la disciplina etnomusicologica dispone per la razionalizzazione dell'oggetto che gli è specifico.
Da queste considerazioni discendono necessità artico­late di impegno sia per chi agisce nell'ambito della ri­cerca sia per chi presume di poter intervenire diretta­mente con il revival.
E discendono responsabilità comuni fondate sulla presa di coscienza documentata della realtà specifica della comunicazione orale/tradizio­nale, dei suoi processi, del suo contesto. Affrontare la riesecuzione di un canto popolare significa, per chi non vuol far ciò per assecondare una moda o per soddisfare personali esigenze emotive od estetiche, approfondire la conoscenza non solo di quel canto ma di tutto quanto quel canto manifesta e quel canto motiva; e significa inseguire un'identificazione culturale, emotiva, ideolo­gica, persino sentimentale con il momento di vita di cui quel dato canto è funzione espressiva. Il rischio è quel­lo della soluzione accademica, della ripetizione fedele ma insensata di qualcosa che già esiste.
La difesa può essere nel collocare sempre il controllo accurato delle tecniche esecutive, desunte dall'insegnamento dei vari cantori e musicisti popolari, nel contesto della società che quelle tecniche ha espresso, vista come fenomeno dinamico, quindi culturale e storico. Il fine del folk singer  dev'essere poi quello di riuscire ad esprimersi in prima persona, muovendo dall'interno del mondo popolare sentito nella sua realtà contemporanea.
(R. Leydi, Canti popolari italiani, Mondadori, Mi­lano, 1973).


Ogni qualvolta si tenti di fare un bilancio qualitativo sulla canzone italiana ci troviamo di fronte ad un dato di fatto inequivocabile: l'industrializzazione della can­zone. Infatti, con il potenziamento delle strutture in­dustriali, la canzone ha assunto il ruolo di un normale prodotto, di una normale merce e viene manovrata con raffinata abilità dai monopoli culturali, case editrici e radio. Il fenomeno canzone viene qui brevemente espo­sto da Ionio Prevignano Rapetti.


Consumismo musicale: la canzone di Ionio Prevignano Rapetti
Tremila canzoni annue, duemila dischi nuovi, all'anno,
trecento case editrici, cinquanta case discografiche, cin­quecento cantanti che incidono dischi: poche cifre che illuminano le strutture di quella attività umana che nel mondo e in Italia - cui le cifre stesse si riferiscono - è diventata un fenomeno dalla portata enorme, un fenomeno per tutte le tasche e per tutti i ceti: la can­zone.
Quante persone vivono, in Italia, su questa attività? Proviamo a fare alcuni conti molto sommari: quaran­taduemila strumentisti e orchestrali, milleduecento im­piegati di case editrici e quattromila di case discogra­fiche, duemila cantanti, trecento funzionari alla RAI­TV, tremilacinquecento addetti di aziende stampatrici, quattrocentocinquanta autori professionisti, una cinquantina di giornalisti specializzati, circa settanta cover­ designers, che creano le copertine dei dischi e delle edi­zioni; insomma, tenendo presente che in tutta Italia esistono duemilacinquecento negozi, ciascuno con una media di tre persone addette alla vendita, la cifra che ne risulta è imponente.
Infatti, moltiplicando per quattro - numero dei com­ponenti di una famiglia media - la cifra totale di circa sessantamila persone prima ottenuta risulta che il mon­do della canzone renda da vivere a quasi duecentocin­quantamila individui.
Ci si può ben rendere conto dell'importanza di una can­zone, di questo minuscolo prodotto dalla vita brevis­sima, di quali giri d'affari e quali ingranaggi gigante­schi essa possa muovere.
Una canzone: qual è, dunque, il suo singolo peso eco­nomico? Tremila, abbiamo visto, sono le composizioni stampate nei trecentosessantacinque giorni dell'anno. Non tutte, però, anzi, un'esigua porzione realizza il proprio fine: il successo.
Oltre il sessanta per cento della produzione annua, in­fatti, non arriva a coprire le spese di stampa. Le spese di stampa per orchestrina non sommate alla media del­le spese di lancio raggiungono la cifra di circa cinque­centomila lire.
Una canzone insomma, comincia ad essere attiva allor­ché supera il mezzo milione di reddito. Quasi duecento sono quelle che superano, ogni anno, il milione. È que­sto il reddito di una canzone media, che non riesca a riscuotere un grande successo. L'editore, però, e in caccia di eccezioni: un'eccezione, infatti, attraverso l'in­cisione su disco, ed una popolarità nazionale ed estera, può fruttare un reddito di venticinque-trenta milioni.
La caccia all'eccezione è anche una caccia all'incognito: a differenza di altre forme industriali, questa deve tene­re presente un dato fondamentale, l'imponderabile. Un buon editore raramente fa un buco nell'acqua: esiste una rete di contatti che garantiscono il lancio del pro. dotto, senza il quale una canzone, per quanto bella non riuscirà a sfondare. Le richieste del pubblico sono fornite da un'esperienza quotidiana. Ma la carta perfetta non si può riconoscere in anticipo.
La carta buona, attenendosi alle cifre sopra riportate, una rarità: essa dovrà soddisfare tutti i ceti del pubblico.
Imponderabile e specializzazione sono dunque i due lati che regolano la vita della canzone: l'ultimo sta all’interno della sfera produttiva, il primo al di fuori. Ec­co i due poli, il dare e l'avere, che la canzone copre come un arco: il primo in funzione del secondo.
Ma perché, oggi, il disco è divenuto un bene di consu­mo così imponente? Perché l'americano, ad esempio, acquista un disco per il week-end alla prima edicola? Perché tanta gente affronta una spesa non indifferente, investendo più di quanto si verifichi nel settore dei libri? La risposta non può essere che una: la sempli­cità, la facilità, l'accessibilità, attributi peculiari di una canzone. Essa parla con il linguaggio di tutti i giorni, esprime cose di tutti i giorni, costruisce un romanzo, in tre minuti.
(I. Prevignano Rapetti, Io, la canzone Ricordi, Mi­lano, 1962).
                                        La tendenza all'appiattimento e all'evasione provocata dal consumismo è particolarmente osservabile in Italia, dove ad una diseducazione musicale preoccupante fa riscontro l'imposizione al grosso pubblico di prodotti di bassa qualità, frutto più di improvvisazioni che di una preparazione professionale seria. Esistono, è ovvio, molte e anche valide eccezioni, soprattutto nella musica « giovane » più recente; ma le eccezioni non sono ancora sufficienti a modificare il quadro generale determinato dai « mass media ».



Tipologia della canzone di consumo di Giuseppe Delconte
Non è cosa nuova che specialmente in un prodotto musicale indirizzato a grandi masse, assuma un'impor­tanza fondamentale il messaggio contenuto nel testo poetico: è questo un principio di cui si tiene sempre maggior conto tra i produttori di ogni parte del mondo. Ovviamente anche in Italia, patria del melodramma, dove le orecchie della gente quasi non sanno ascol­tare musica senza parole l'importanza del messaggio è imperante.
Tuttavia esiste una certa confusione sul tipo di messaggio oggi più richiesto dal pubblico italiano. Si ondeggia così tra i temi erotico-sofisticati delle canzoni di Patty Pravo o di Ornella Vanoni e le storie di periferia dei Celentano o dei Gaber, tra le canzoni pseudo impegnate (rigonfie di ipocrisia e di retorica), i rinverditi temi romantici di Al Bano e Massimo Ra­nieri e le amene moraleggianti storielle di amori puliti, care all'infantilismo paesano.
Raramente si ha il coraggio di uscire da questi filoni, ed anche i personaggi più popolari subiscono grossi tonfi ogni volta che si avventurano fuori dal genere che li ha resi celebri. Tuttavia è soprattutto il linguaggio, le caratteristiche di stile con cui vengono espressi questi argomenti, che resta rigorosamente legato ad una tipica tradizione di gusto nostrano.
Proviamo ora un insolito confronto tra i testi di due canzoni che si potrebbero considerare i due antipodi dell'universo italiano: un tipico successo del tradizionalismo paesano, Fin che la barca va di Pilat-Pace, ca­vallo di battaglia di Orietta Berti, e Via del Campo del cantautore Fabrizio De André, un idolo dell'élite dei consumatori di 33 giri ma modestamente piazzato sul mercato dei 45.

Stasera mi è suonato il campanello. È strano, io l'amore ce l'ho già. Vorrei aprire in fretta il mio cancello. Mi fa morire la curiosità.
Ma il grillo disse un giorno alla formica: il pane per l'inverno tu ce l'hai. Vorrei aprire in fretta il mio cancellò ma quel cancello io non lo apro più. Fin che la barca va, lasciala andare...

In via del Campo c'è una bambina con le labbra color rugiada,
gli occhi grigi come la strada, nascon fiori dove cammina.
In via del Campo c'è una puttana, gli occhi grandi color di foglia, se di amarla ti vien la voglia basta prenderla per la mano;
e ti sembra di andar lontano, lei ti guarda con un sorriso, non credevi che il paradiso fosse solo lí al primo piano.
Quanto ad atteggiamenti morali, sono questi indubbia­mente due estremi opposti: da una parte un messaggio chiaramente repressivo e bigotto, dall'altra un qua­dretto anticonformistico venato di un decadentismo pa­tetico e bonariamente maudit  con quell'uso poetico della volgarità popolana che denuncia l'influenza dei più raffinati chansonniers di scuola francese.
Sul piano stilistico invece, al di là di ogni giudizio de­finitivo sul valore artistico che in questo momento non ci riguarda, possiamo notare sorprendenti analogie. Una certa tendenza ad esprimere scene e sentimenti popola­reschi con un linguaggio piuttosto letterario e borghese, un certo attaccamento all'uso tradizionale delle rime.
Addirittura possiamo rintracciare nei due brani due immagini metaforiche (« Vorrei aprire in fretta il mio cancello » « nascon fiori dove cammina ») il cui rife­rimento sessuale è recepito inconsciamente dal consu­matore di massa ma è ben noto in tutta la sua efficacia emotiva agli autori.
Certi caratteri stilistici in fin dei conti appartengono anche alla più autentica tradizione popolare dal Me­dioevo all'Ottocento, e senza distinzione di argomenti (da quelli mistici a quelli goliardici, dagli idilli amorosi alle storie tragiche delle leggende e delle cronache pae­sane fino a quelle burlesche da osteria).
Tuttavia nella tradizione popolare queste immagini quasi codificate, queste metafore, queste formule della nostra retorica erano congeniali all'attualità del canto, vive perché fun­zionali. Nei prodotti odierni, poveri o totalmente sfor­niti di attualità, le stesse formule svuotate di funziona­lità, ma pur sempre dotate di una poderosa, quasi ma­gnetica forza di attrazione sulla psiche dell'uomo-mas­sa italiano, diventano degli astratti e ingiustificati mec­canismi che lo seducono, lo irretiscono e quindi lo tra­scinano in maniera coatta verso lo stadio dell'evasione pura.
Naturalmente i meccanismi qui descritti non sono mai perfetti e le contraddizioni interne al prodotto di eva­sione portano talvolta il consumatore a parziali prese di coscienza critica sia in senso estetico che sociale; quando ciò accade, proprio perché si tratta di prodotti di larghissimo consumo e non di creazioni artistiche destinate ad una élite, un ben che minimo sviluppo del senso critico nella massa può diventare un fenomeno socio-culturale di rilievo. Purtroppo perché sorgano tali contraddizioni è indispensabile che i produttori, per quanto integrati, siano sensibili criticamente nei riguar­di dei problemi più attuali della loro società e si trovi­no all'avanguardia per quanto concerne una prepara­zione completa e scientifica nel loro campo professionale.
Queste sono le ragioni principali del successo di alcuni complessi d'avanguardia nella musica pop ame­ricana e, forse ancora di più, in quella inglese; e per questo tale successo ha avuto anche una portata sociale, almeno in parte positiva, a dispetto del marchio infa­mante di commercialità affibbiato senza troppi distin­guo a questa musica.
Se in Italia non possiamo riscontrare fenomeni altret­tanto positivi è proprio perché è ferocemente repressa o ipocritamente falsata qualsiasi tendenza all'attualità e, d'altra parte, non è in alcun modo favorita una vera preparazione professionistica. E si badi bene che i due esempi in precedenza analizzati, per quanto esemplari di tutto un gusto nostrano, sono due prodotti realizzati da alcuni tra i più collaudati professionisti della can­zone italiana, dove tuttavia alla solidità del mestiere non fa riscontro una sufficiente sensibilità al gusto at­tuale e soprattutto alla dinamica storica della musica popolare.
Insomma anche laddove i canzonettisti ita­liani utilizzano, pur a diversi livelli di produzione, una sufficiente preparazione ed un rispetto per la più auten­tica tradizione, lo fanno con scarso senso critico e tra­sformano quel rispetto in passiva e colpevole condi­scendenza verso il gusto immobilista dei detentori del potere e della parte più retriva e impreparata del pub­blico (che purtroppo è ancora larga maggioranza).
A questo punto si potrà obbiettare che si è tirata una serie di conclusioni basandole soltanto sull'analisi del testo poetico delle canzoni. Per la musica tuttavia il discorso non cambia: il legame musica-testo è così stretto che possiamo senz'altro affermare che le carat­teristiche e le lacune tipiche del messaggio verbale si rispecchiano fedelmente in quello musicale. Infatti, nonostante gli sforzi di rinnovamento di alcune persona­lità delle ultime generazioni, facili effetti, ricerca della più banale orecchiabilità, tendenza delle melodie al più sbracato e vuoto sentimentalismo, solennità da cattivo melodramma restano le caratteristiche più scoperte della “canzone che vende”.
L'abile rimpasto di schemi già collaudati dà sicurezza; l'originalità spaventa, al massimo può introdursi in porzioni microscopiche per non urtare la sensibilità ottusa del consumatore. Il ri­spetto per la mediocrità del gusto pubblico è legge an­che per i creatori più preparati, come per i program­matori radiotelevisivi; e il risultato assurdo di ciò è che in pochi Paesi come nel nostro il consumatore me­dio si scandalizza tanto per una canzone o un cantante che cerca di proporre un'infinitesima porzione di no­vità.
Dunque le caratteristiche della canzone italiana sono la spia innegabile di una situazione culturale, colpevol­mente subita da autori ed interpreti: in parole povere il semianalfabetismo musicale del cosiddetto « paese del bel canto ».
(G. Delconte, in Generazione zero, n. 10, marzo 1971).


Conclusione aperta
Abbiamo accennato solo ad alcuni tra i molteplici aspetti che investono la musica. Sono stati trattati quegli argomenti che maggiormente influi­scono sulla nostra vita sociale: il canto di protesta, il jazz, il pop, la canzone, il folk.
E' stata tralasciata la gigantesca corrente della musica contemporanea, spesso allineata a quella del dissenso giova­nile, almeno per quanto riguarda gli intendimenti politico-sociali.
È certo in ogni caso, che la musica non è più un'arte marginale che può servire come riempitivo nei momenti di riposo, ma rap­presenta pienamente un fatto di costume e di pensiero determinante per la nostra vita quotidiana.
Bibliografia
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F. Fayenz, Il jazz dal mito all'avanguardia, Sapere, Milano, 1975;
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Blues: E. Clementelli, W. Mauro, Antologia del blues, Guanda, Parma, 1976.
Folk: A. Portelli, La canzone popolare in America, De Donato, Bari, 1975.
Canto popolare: Il folk italiano, a cura di G. Vettori, Newton Compton, Roma, 1975;
I canti popolari italiani, a cura di R. Leydi, Mondadori, Milano, 1973;
S. Boldini, Il canto popolare strumento di comunicazione e di lotta, Edizioni Sindacali Italiane, Roma, 1975.
Rock: R. Bertoncelli, I poeti del rock, Arcana, Roma, 1975;
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Pop: R. U. Kaiser, Guida alla musica pop, Mondadori, Milano, 1971;
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R. Bertoncelli, M. Fumagalli, M. Insolera, Il pop inglese, Arcana, Roma, 1974;
Libro bianco sul pop in Italia, Arcana, Roma, 1976.
AA.VV., Riprendiamoci la musica, Savelli, Roma, 1974;
Stampa Alternativa, I padroni della musica, Savelli, Roma, 1974;
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S.W. Finkelstein, Jazz: a people’s music, Literary licensing, 1988
S.W. Finkelstein, How music expresses ideas, 1970





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