La Musica e le Parole
Musica
e parole
Con la parola musica
viene indicato genericamente ogni fenomeno
acustico regolato da leggi proprie, e determinato dal particolare modo di
esprimersi, sia di un singolo individuo, quanto di un gruppo, o di tutta una
collettività, in relazione al particolare momento storico in cui esso si
manifesta. L'approfondimento degli studi ha confermato che la musica si pone
alle origini delle arti come espressione immediata delle prime associazioni
umane. Lungo il corso dei millenni la musica si è distinta in generi, cioè ogni
sua forma (o tipo) è nata e si è stabilita come espressione adatta ad una certa
categoria di persone, ad un determinato ceto o classe sociale, ad una ben
delineata corrente culturale.
Pertanto ogni genere di musica conserva i caratteri
peculiari della sua nascita, dei suo rango e li proietta nel tempo, anche quando
cambiano le sue destinazioni esterne, regolate da nuove operazioni culturali.
È certo che chiunque si avvicini oggi alla musica è investito da un complesso
di problemi che non si presentavano alle passate generazioni. Ogni genere di
musica vocale e strumentale (dall'antica alla contemporanea, dalla sacra alla
dotta. dalla popolare alla « folk » e alla leggera) è penetrata, tramite i
mezzi odierni di diffusione, nella vita di tutti i giorni.
La radio, la televisione, il disco, il nastro magnetico e
tutti gli altri strumenti forniti dalla tecnologia elettroacustica, hanno ingigantito
la possibilità di fruizione di un materiale sonoro che mai in precedenza si sarebbe
potuto mettere a disposizione di ogni ceto sociale.
Nella maggior parte dei casi, però, è una musica che
conserva la sua natura elitaria, legata ad una classe egemonica propria o del
passato o del potere economico attuale. Manca ancora la musica per le grandi
masse, una musica che si ponga essenzialmente come voce corale, come arte
capace di accompagnare le espressioni più intense dell'attuale vita associata.
Una musica totale, che nasca dall'uomo per l'uomo, sulla
base di tutte le culture musicali preesistenti, in un libero impulso creativo.
Una musica popolare scritta per la massa, ma che non tralasci ciò che può aver
valore anche per un solo uomo, e che sia protesa verso una nuova civiltà.
Eppure un precedente c'è; lo troviamo in un genere musicale
per lo più ignorato fino a pochi anni or sono dalla musicologia ufficiale: il folk, riscoperto da musicisti e studiosi
verso la fine dell'800.
Essi però, pur rivalutando la musica popolare europea,
hanno posto in primo piano la musica africana e di altri « primitivi », che
unica persisteva come rottame di tutto l'immenso bagaglio artistico che si era
perduto nel corso dei millenni.
Generi musicali ritenuti inferiori divenivano d'un tratto
degni d'attenzione: la cosiddetta musica popolare non poteva più essere
considerata tale, ma uno spiraglio aperto su una realtà culturale sinora
disprezzata od ignorata, mentre dall'incontro tra folk negro e la musica dei bianchi d'America nasceva il jazz.
Naturalmente il fenomeno ha avuto il suo contraltare immediato: il folk ed il jazz assurgevano alla dignità di strumenti culturali, e come tali contrabbandati quale merce tra le più decorose del consumismo moderno. Come tali dilagavano su ogni mercato, subivano il deterioramento dell'impatto con le industrie culturali, e si ingentilivano , perdendo quello che avevano di popolare, di autentico, per assimilare moduli e frasari propri della musica leggera e di quella dotta.
Naturalmente il fenomeno ha avuto il suo contraltare immediato: il folk ed il jazz assurgevano alla dignità di strumenti culturali, e come tali contrabbandati quale merce tra le più decorose del consumismo moderno. Come tali dilagavano su ogni mercato, subivano il deterioramento dell'impatto con le industrie culturali, e si ingentilivano , perdendo quello che avevano di popolare, di autentico, per assimilare moduli e frasari propri della musica leggera e di quella dotta.
Nel momento in cui la musica popolare appariva come una
delle voci autentiche delle classi subalterne, le generazioni giovanili ne
scoprivano il potere rivoluzionario, contestatario nei confronti
dell’establishment politico: l'incontro tra la cultura « underground » e la
musica folk divenne un fenomeno tra
i più attivi e stimolanti, uno di quelli che maggiormente hanno lievitato
nella musica moderna.
La musica e la rappresentazione
dell'attività umana di Sidney Finkelstein
L'organizzazione dei suoni in immagini umane fu una
creazione della primitiva vita tribale. In questo periodo i mezzi di
produzione, i territori per cacciare e pescare e le terre da coltivare
costituivano un possesso comune; la soddisfazione dei bisogni umani, la
caccia, la pastorizia, l'agricoltura costituivano l'occupazione sociale di
tutta la tribù.
La natura, ancora inesplorata e selvaggia, appariva agli
uomini un insieme di forze viventi, potenti e misteriose. All'uso del fuoco,
che segnò il primo riuscito tentativo dell'uomo di padroneggiare le forze
naturali, alla creazione della lancia, della freccia, della ruota, della barca,
del vaso, le tribù primitive aggiunsero il tentativo di dominare la natura per
mezzo di riti magici e collettivi.
Questi riti combinavano poesia, musica e danza in un
tutto di cui facevano parte anche la pittura del corpo e le maschere per il
viso. Il fondo magico di tutto ciò era la credenza che, imitando o
simbolizzando le misteriose forze della natura con figure, gesti o parole, gli
abitanti della tribù potevano realizzare il loro dominio su queste forze. Con
la scoperta di attrezzi più perfezionati e con la conoscenza scientifica del
mondo, la magia divenne ancor più fantastica e degenerò nella superstizione,
ma nella vita primitiva aveva un fondo di utilità. Essa era un mezzo per
organizzare il lavoro collettivo della tribù, le attività pratiche come la
pesca e la caccia, e, nello stesso tempo, costituiva un primo tentativo di
comprendere la natura. Vi erano riti per la caccia, la guerra, la seminagione,
il raccolto, l'iniziazione dei giovani e cerimonie perla sepoltura dei morti.
Ognuno aveva le proprie danze e i propri canti.
La vita primitiva aveva canti e danze differenti per ogni occasione:
per la caccia, la guerra, il raccolto, i viaggi, l'amore, il sonno e tosi via.
Dall'impiego di questi modelli musicali definiti per le varie attività sociali
sorse poi la fantasia musicale, la capacità di evocare, attraverso la frase
musicale, le immagini di azioni o di sentimenti che vi sono legati. È una
questione assai dibattuta se la fantasia musicale sia legata alle condizioni
sociali o se sia basata soltanto sulle caratteristiche fisiche del suono. Essa
non può essere prodotta che da entrambi questi fattori.
Segnò un grande progresso (che forse avvenne già nella
vita primitiva) il giorno in cui i canti non furono più soltanto cantati, ma suonati su
strumenti, come le siringhe, pur conservandosi il significato delle parole e
dei sentimenti che esse esprimevano originariamente.
Con ciò la musica ha fatto una lunga strada dal canto
parlato, o dal semplice ricalco delle intonazioni e degli accenti del
discorso, come dal nudo impulso del movimento ritmico. E tuttavia, la chiave
per comprendere l'espressività della musica, compresa quella strumentale, è il
fatto che vi è permanentemente incorporata l'inflessione della parola, il
movimento del corpo e la fantasia sorta dal contatto della musica con quasi
tutte le attività della vita.
È un elemento necessario per una cultura musicale in
progresso che la musica, assieme alle forme imponenti che produce, sia usata
anche dal popolo per i suoi canti, per accompagnare la danza, la marcia, le
attività del lavoro e gli altri aspetti della sua vita quotidiana. In questo
modo l'umanità della rappresentazione musicale, la chiave del suo contenuto,
viene confermata dal popolo con l'uso che egli ne fa.
Al comunismo primitivo delle tribù seguirono le società
schiavistiche. Queste società produssero dei lavoratori altamente
specializzati, la maggior parte dei quali erano schiavi, fra cui c'erano anche
abili musicisti. Apparvero complicati strumenti musicali, la cui costruzione
fu resa possibile dall'aumentata abilità nella lavorazione dei metalli, del
legno, della pietra e dalle maggiori conoscenze nel campo della matematica.
Quest'ultima rese possibile il calcolo esatto del tono
degli strumenti, stabilendo con precisione il diametro dei flauti e delle corde
e il posto esatto per i buchi. E questo sviluppo strumentale fece si che anche
la voce e l'orecchio venissero allenati ad afferrare e riprodurre più
esattamente i suoni.
Queste società attribuirono ancora alla musica poteri
magici e la impiegarono nei riti. Questi, però, non erano pili una
manifestazione collettiva del popolo, ma venivano organizzati dal clero
nell'interesse del re e della nobiltà per confermare la credenza che i grandi
proprietari di schiavi. non erano ordinari mortali ma dèi e discendenti di
dèi.
Esistono anche attualmente composizioni che possono darci
un'idea dei caratteri della musica antica. Ad esempio: la musica rituale
dell'India con centinaia di disegni ritmici e melodici, chiamati ragas e talas, ognuno
dei quali è associato ad un significato particolare: un dio, una « passione »
come il coraggio o la pace, un periodo del giorno e cosi via.
Cosi pure si possono citare i canti liturgici ebraici con
i loro liberi arabeschi vocali. E vi è tuttora una ricca tradizione di improvvisazioni
poetico-musicali, comprendenti interi poemi epici tra i popoli dell'Asia. Vi è
il flamenco del folclore spagnolo con le sue intonazioni commoventi come la parola
e i suoi ritmi intricati di chitarra intessuti attorno alla voce.
Vi sono i blues creati dai negri degli Stati Uniti
tra la fine del diciannovesimo e l'inizio del ventesimo secolo. Questa musica
ha radici antiche ed è nello stesso tempo moderna in quanto riflette sentimenti
e lotte che appartengono anche all'umanità odierna.
Teoria, forme, tecniche musicali
della società schiavistica e della società primitiva si proiettano lungo tutto
il Medioevo e il Rinascimento, evolvendosi lentamente. Con i nuovi e talvolta
prestigiosi sviluppi di forma e contenuto esse si rivolgono ad un pubblico
eclettico, riflettendo e realizzando un'immagine completa della vita umana e
delle sue particolari caratteristiche.
L'egemonia esercitata dalla
teologici su tutte le forme di pensiero, non esclusa l'arte, ed il
riconoscimento da parte della Chiesa cristiana
dei titoli di nobiltà spettanti per diritto divino alle ,imperanti classi
dirigenti, favorisce lo sviluppo di quel concetto eurocentrico della cultura,
di cui tuttora sentiamo le ripercussioni.
Infatti per secoli gli Europei
hanno preteso un primato mondiale di potere e di cultura, e anziché allargare le conoscenze europee
con l'analisi parallela di altre culture aventi storia, principi e funzioni
sociali ben diversi la loro, hanno imposto ai colonizzati mezzi linguistici ed
espressivi propri, hanno soffocato, spesso viole mente, la loro resistenza fino
a distruggere ogni dice (culturale, storica, geografica, economica) originaria.
Non tutti i popoli dominati dagli Europei hanno rifiutato
o completamente dimenticato la loro civiltà. Anche se in un primo momento essi
avevano accettato l'imposizione dei colonizzatori, si sono in seguito rii lati
alla falsità della loro posizione. In un ricordo di t ancestrale, essi hanno
riproposto una loro identità baie, anche se fusa con elementi propri della cult
dei colonizzatori, e, secondo un tempo storico dive; una diversa funzione
sociale e mezzi tecnici più progrediti.
Il canto di protesta degli schiavi
negri di Sidney
Finkelstein
Il più efficace
contributo creativo alla musica popolare degli Stati Uniti fu dato dalla musica
negra. Un ricco apporto venne dall'Africa, testimonianza delle cult distrutte
dal commercio degli schiavi. Questa eredità musicale africana, assorbendo le
parole e la musica gli inni trovati sul suolo americano, produsse il meraviglioso
corpo degli spirituals, sorti dal 1830 al 1860 come arma di lotta contro la
schiavitú.
Essi erano un mezzo per affermare la solidarietà tra i
negri; servi per trasmettere messaggi e ordini dell'organizzazione clandestina,
erano canti di guerra e inni religiosi di un popolo per cui la religione aveva
un significato soltanto nella misura in cui sosteneva la sua lotta coni
schiavitú.
Proprio perché la lotta antischiavistica costituiva un progresso
per la democrazia di tutto il paese, gli spirituals
sono diventati la musica popolare più amata da tutto il popolo; anche se molti,
pur restando commossi dalla bellezza e dalla efficacia degli spirituals, ignorarono la natura della
lotta che li ha prodotti. I veri spirituals rappresentano il canto collettivo
per antonomasia e si perpetuano per tradizione orale senza schemi musicali o
poetici prefissati.
Negli ultimi decenni del secolo diciannovesimo e nei primi del ventesimo, si sviluppò il blues, e inoltre nelle
comunità negre delle città fluviali e nei porti del Sud, quali Savannah, Saint
Louis, Memphis e New Orleans, una notevolissima musica strumentale chiamata rag o
ragtime.
Questa
musica strumentale era essenzialmente composta di marce e di danze, ma, nella
sua organizzazione formale e nell'intreccio polifonico di linee melodiche,
superava largamente le esigenze ordinarie della danza.
Si
serviva di strumenti da banda militare, come trombe, clarinetti e tromboni, ed
era ricca di qualità melodiche e liriche in cui si esprimeva il contenuto
umano dell'esperienza della vita e delle sue lotte presenti e passate.
Si
trovavano cosi in questa musica tanto gli elementi della tradizione popolare
quanto quelli derivati dall'abilità acquisita dai negri come suonatori di
piano, di violino e di altri strumenti nelle sale da ballo dei ricchi bianchi.
S.
Finkelstein, Come la musica esprime le idee, Feltrinelli, Milano, 1955.
Il jazz, partecipando alla battaglia del pensiero e cantando i nuovi concetti di dignità umana, entra come parte integrante nella vita culturale e sociale del '900. André Francis descrive in forma concisa le vicissitudini del popolo negro che, dopo tre secoli di schiavitú, riesce a staccarsi dai colonizzatori e ad informare, secondo una propria sensibilità, le maggiori correnti musicali del '900.
La preistoria del jazz di André Francis
Dopo tutto quello che si è
scritto sul jazz ci si è trovati d'accordo nel ritenere
New Orleans il luogo di nascita di questa musica. Dal punto di vista
strumentale la tesi è sostenibile, ma prima di diventare musica da ballo il jazz è
stato canto, ritmo, poesia e religione. Le sue origini sono complesse e oggi
quasi impossibili da rintracciare con esattezza. Di questa appassionante avventura
musicale si conoscevano soltanto pochi frammenti.
Nel 1619, quattordici negri provenienti dal Congo o ' dalla Costa
d'Oro sono venduti come schiavi a certi coloni della Virginia. Intorno al 1917
le prime orchestre di jazz, provenienti appunto da New Orleans, cominciano a
incidere dischi. Nel tempo che intercorre tra queste due date i ritmi africani
si purificano, inizia l'avventura del blues, il canto degli spirituals
e fiorisce il primo boogie-woogie.
Tre secoli (dei quali non
possediamo altro che scarse testimonianze poco convincenti, brevi relazioni di
viaggio, racconti romanzati con molta fantasia) saranno necessari affinché
lentamente si sviluppi la musica originale d'un complesso afro-americano.
I primi schiavi portavano
naturalmente con sé il ricordo della loro lontana Africa, il culto di divinità
completamente diverse da quelle popolazioni abitanti la costa centro-atlantica
dell'Africa, dei ritmi interminabili e, nonostante le numerose differenze
d'idiomi, un fondo linguistico comune.
Prima d'imparare a rispondere, a
parlare approssimativamente la lingua dei loro padroni, anzitutto degli.
Olandesi situati nell'odierno Stato di New York, poi dei Francesi della
Louisiana e degli Inglesi nel resto del paese, prima d'abbracciare una nuova religione
(il cattolicesimo per un certo periodo nella Louisiana fino al 1892, poi il
protestantesimo che si estese dovunque), il negro, lo schiavo non troverà
niente di più immediato per soddisfare la nostalgia per l'Africa che le antiche
danze ancestrali.
Se le estasi magiche create dalla
ripetizione instancabile degli stessi motivi ritmici sembrano uguali a quelle
dell'Africa, le figure e gli scopi della danza sono ben differenti. L'incontro
nel crogiuolo della schiavitú di Africani di origini diverse produce, fin dai
primi contatti, avversioni e rivalità.
Soltanto a poco a poco uno pseudo-popolo
afro-americano, per via delle mescolanze tra negri di provenienze diverse e
persino d'incroci tra le varie razze (inutile notare che si trattava quasi esclusivamente
di relazioni tra il padrone bianco e lo schiavo negro), prese forma e colore.
Le sue sfrenate poliritmie africane
si trasformano giorno per giorno in qualcosa di nuovo. Ora, in un ambiente
edulcorato rispetto a quello africano ma ancora esplosivo, si svolgono a New Orleans
in una piazza ormai storica, Congo Square, lunghe feste con interminabili
danze in tondo.
Dal sabato alla domenica sera, aiutati
dall'alcool, spinti dalla carica sessuale, i suonatori negri di tamburo
risvegliano nel sangue dei loro fratelli l'esaltazione del selvaggio feticista
e avvertono i bianchi che una nuova musica sta per nascere.
È stata la lingua inglese che ha
permesso ai negri africani di creare quella particolare fonetica che è alla
base dell'elemento primordiale del jazz:
lo swing. Le voci dei negri sono
nell'insieme gutturali ma anche dolci. 1 loro idiomi originali, molto
disarticolati, fanno un grande uso di consonanti; le loro parole ci sembrano
strappate, trattenute o sorvolate.
Trovandosi alle prese con le lingue latine in cui l'accentazione di solito è diversa dall'inglese, i negri
non ne modificano sensibilmente l'accento; questa facilità di pronuncia non la
ritroveranno invece nella lingua inglese. Essi allora si trovano a rendere
inavvertibili le sillabe deboli e per contrasto ad accentuare le toniche
principali. Questo spostamento d'accento, questo anticipo sul tempo del ritmo,
questa strana oscillazione sarà una figura precorritrice dello swing, un'immagine
molto embrionale di quello che uno sfruttamento musicale rivelerà pienamente
soltanto con l'apparizione di un maestro: Louis Armstrong.
Il negro spiritual
Parallelamente al fatto linguistico, le religioni
praticate dai bianchi ebbero un'influenza indiretta ma determinante sulla
genesi della musica dei negri deportati in America. La religione cattolica,
specialmente agli inizi, si mostrò favorevole alla schiavitù, perché secondo
il suo « Codice nero » questo era il miglior mezzo per far entrare in seno alla
Chiesa la gente di colore.
Le danze dei negri divertivano i Latini che concessero
loro di esprimersi liberamente. Poiché la Chiesa cattolica limitava ad
assistere alle sue funzioni la partecipazione dei fedeli, si sviluppò
nascostamente uno strano paganesimo voodoo, in cui i santi cattolici erano
associati alle divinità del Dahomey.
I negri si divertivano a cantare in creolo temi eterogenei
semiancestrali, in parte derivati dai musicisti del momento francesi o spagnoli.
Da parte inglese e protestante, la situazione era completamente
diversa, anche differente da quella delle numerose sette religiose riformate.
Le chiese protestanti erano meno organizzate di quella cattolica; durante le
funzioni si ascoltava il sermone e dopo si cantavano canti religiosi di libera
scelta. La libertà che si concesse ai negri di celebrare Dio secondo il loro
desiderio li convinse ad accettare la religione protestante.
In altre parole, Dio era celebrato in un linguaggio a
tutti comune e non in una lingua morta come il latino. Questo fatto permise di
cantare Dio secondo il loro spirito e perfino secondo qualcuna delle loro
tradizioni.
Si hanno poche notizie sui metodi dei primi evangelisti
bianchi, sui loro mezzi di persuasione e sulla pratica delle loro cerimonie.
Dipendevano strettamente dalla tradizione liturgica delle chiese riformate o
grazie alla libertà acquisita dall'accrescersi delle sette religiose, sono state
immediatamente adattate al nuovo pubblico da convertire? Questo non ci
interessa.
Ci sembra invece evidente che molto presto i negri sono
stati lasciati liberi di praticare la religione da loro scelta e che i nuovi
sacerdoti negri, mentre facevano rinascere con le loro prediche il tono
imprecativo ancestrale, sono stati indulgenti verso i loro fedeli e più tardi
anche verso i primi cantori.
Il pastore solista ha cominciato col commentare un brano
biblico verso per verso, in seguito ha invitato i fedeli a farselo ripetere.
All'inizio si svolgeva con un tono di voce naturale, poi la tensione aumentava
e certe frasi venivano più violentemente pronunciate.
La profonda respirazione del pastore, accentuata da una
specie di gemito che serviva a facilitare l'emissione di aria dai polmoni, ha
accresciuto il potere emotivo della sua predica e ha contemporaneamente dato
vita ad una nuova ritmica. Poi, col solo mezzo della parola, del contrasto
esistente fra il predicatore e le esclamazioni dei fedeli, attraverso un gioco
collettivo di domande e risposte, è scaturita un'austera melodia originale
dai contrasti ritmici. A contatto della lingua inglese, la fonetica negra era già diventata una forma pre-musicale. In
chiesa essa scivolava senza accorgersene verso un canto vero e proprio.
Nascita del blues
I primi musicisti che si distinsero durante il periodo della
guerra di Secessione furono dei cantanti di vicende dolorose. La guerra con le
sue conseguenze, le malattie, la carestia, il banditismo, la liberazione degli
schiavi, e in seguito lo sviluppo economico e la nasci delle prime linee
ferroviarie, eccitavano l'ispirazione dei poeti popolari.
Come i nostri trovatori, i suonatori negri andavano di
città in villaggio e cantavano accompagnandosi alla chitarra. Fino al giorno in
cui i primi blues furono raccolti e incisi, un
intero e appassionante capitolo della preistoria del jazz si svolse
nell'ombra. Ci troviamo ancora nel periodo degli interrogativi e forse
rimarremo sempre fermi alle nostre attuali conoscenze.
Anche ricercando tra le forme poetiche di civiltà
africane, o tra i canti religiosi o di lavoro degli Stati Uniti, non troveremo
che molto raramente temi dialogati o ripetuti, e non saranno mai in un modo cosi
felicemente ritmico come nel blues.
Accontentiamoci di rilevare che il blues si è formato
prima del 1900 e che circa a questa data (che segna anche l'apparizione del jazz strumentale)
ci si è trovati di fronte al fatto compiuto: l'affermazione di una musica originale
capace di contenere e trasformare ogni cosa. Per la sua stessa etimologia , il blues (che
noi traduciamo come stato di malinconia e di depressione) è un canto
d'abbandono, di disperazione o di lirica tristezza.
Ciò nonostante, la sostanza ha superato la forma, e a
questo modello si sono fusi in continuazione altri sentimenti. Alcuni blues appaiono
allegri, ironici, sarcastici e anche rivendicatori.
Da lenti li abbiamo visti trasformarsi fino ad essere
suonati in tempi veloci (quale il boogie-woogie) e persino nel jazz moderno
in ultraveloci.
A. Francis, Il jazz, Mondadori, Milano, 1958),
Secondo André Francis l'elemento fondamentale per lo sviluppo del « jazz » è la presenza delle lingue latina, inglese e creola a New Orleans. Altri invece fanno d questa città la culla del jazz in virtú del particolare spirito internazionale che in essa si andava sempre più sviluppando nella seconda metà dell'800.
Il notevole afflusso di immigrati di razze diverse, l'incontro e lo scontro dei loro apporti culturali, l'accresciuto numero dei luoghi di divertimento, favoriscono infatti liberalità ed indipendenza in ogni ceto sociale. Marce, fanfare, quadriglie francesi, originali composizioni pianistiche e forme di canto negro, vengono riproposte da musicisti improvvisati con elementi ritmici sobbalzanti e con strumenti di fortuna: da queste riunioni estemporanee e dalle prime prestazioni dei negri in occasione di cerimonie pubbliche, sfilate, e soprattutto funerali, nascerà il più originale ed istintivo repertorio jazz.
Tutto ciò che vi è di creativo nel « jazz » veniva da gente semplice, che considerando la musica come un mezzo di lotta, trasfondeva in essa la propria umanità, il proprio diritto di vivere, amare, gioire, soffrire come ogni altro essere umano.
Tuttavia quest'arte, sviluppatasi di pari passo con il processo dell'industrializzazione, non è diventata per il negro un'affermazione di libertà e di unità popolare, né base di una più vasta cultura nazionale, ma un nuovo e pericoloso mezzo di sfruttamento manovrato dalla società industriale.
Secondo André Francis l'elemento fondamentale per lo sviluppo del « jazz » è la presenza delle lingue latina, inglese e creola a New Orleans. Altri invece fanno d questa città la culla del jazz in virtú del particolare spirito internazionale che in essa si andava sempre più sviluppando nella seconda metà dell'800.
Il notevole afflusso di immigrati di razze diverse, l'incontro e lo scontro dei loro apporti culturali, l'accresciuto numero dei luoghi di divertimento, favoriscono infatti liberalità ed indipendenza in ogni ceto sociale. Marce, fanfare, quadriglie francesi, originali composizioni pianistiche e forme di canto negro, vengono riproposte da musicisti improvvisati con elementi ritmici sobbalzanti e con strumenti di fortuna: da queste riunioni estemporanee e dalle prime prestazioni dei negri in occasione di cerimonie pubbliche, sfilate, e soprattutto funerali, nascerà il più originale ed istintivo repertorio jazz.
Tutto ciò che vi è di creativo nel « jazz » veniva da gente semplice, che considerando la musica come un mezzo di lotta, trasfondeva in essa la propria umanità, il proprio diritto di vivere, amare, gioire, soffrire come ogni altro essere umano.
Tuttavia quest'arte, sviluppatasi di pari passo con il processo dell'industrializzazione, non è diventata per il negro un'affermazione di libertà e di unità popolare, né base di una più vasta cultura nazionale, ma un nuovo e pericoloso mezzo di sfruttamento manovrato dalla società industriale.
La nuova tratta dei
negri negli anni ruggenti del jazz
di Sidney Finkelstein.
Fra il 1900 e il 1930 sorse un gruppo di
personalità dotate di grande talento creativo come Scott Joplin, Ferdinand
Morton, Joseph Oliver, Bessie Smith, Lilian Hardin, William Handy e Louis
Armstrong. La loro musica si serviva ancora di schemi tradizionali popolari,
ma aggiungeva alla musica popolare del passato valori nuovi.
La ricchezza di creatività personale e di espressione, la
conoscenza musicale, lo scambio vivo di idee fra i vari musicisti la portò al
livello cosiddetto « artistico » della composizione. Questi cantanti, suonatori
e scrittori di canzoni riuscirono a porsi alla testa dei compositori americani,
sviluppando il loro talento in condizioni ragionevoli e umane. Il loro compito
fu però considerato soprattutto quello di “divertire”, nel senso più volgare
della parola, un pubblico composto di bianchi, animati da spirito, razzista, che li costringeva
spesso a mascherare le loro funzioni di musicisti sotto il ruolo di pagliacci. È
sempre stato vero della musica folcloristica e lo è del jazz, il fatto che la natura rudimentale della materia
cui la musica popolare si serve, i doppi sensi, il linguaggio oscuro, rendono
possibile la trasformazione di quest'arte in una grottesca imitazione diretta
contro il popolo stesso. Così le riviste musicali della metà del secolo
diciannovesimo, presentate da attori bianchi col volto annerito, erano una
perversione grottesca della musica negra.
Similmente il jazz, nel suo sviluppo commerciale, ricavò
le sue forze e le sue fresche energie dalla musica negra, ma la formalizzò
alterandone la nato originale con eccessivo rilievo alla forma esteriore spogliata
del suo significato sociale. Negli anni tra il 1910 ed il 1920 la pubblicazione di musica popolare stava diventando
un grosso affare ed era ancora aperta al creazione nuova. Molte canzoni di compositori
negri divennero popolari, e innumerevoli altre canzoni erano in realtà
arrangiamenti di musica negra anche se la fonte non era citata; i principali
compositori bianchi, con George Gershwin, Hoagy Carmichael, Vincent Youmans e
Richard Rodgers furono profondamente influenzati dalla musica negra.
Le canzoni popolari di questo periodo, sebbene rivelino
già nella musica la forma rigidamente standardizzata di Tin-pan Alley e
risentano della edulcorazione della censura, nelle parole (come è avvenuto di
tutta la musica popolare pubblicata), sono rimaste insuperate.
Tra il
1930 e il 1940 la canzone e la danza popolari, entrarono nell'orbita del
monopolio passando alle dipendenze delle grandi compagnie di dischi fonografi
dell'industria del cinema e della radio. Eppure, anche in questo periodo,
furono essenzialmente i musicisti negri quali Edward Kennedy Ellington, William
Basie, Theodore Wilson e Mary Lou Williams che lottarono per conservarsi
musicisti creativi, trasformando il jazz in una forma d'arte per quanto era
possibile nei limiti di una danza o in una incisione fonografica di tre minuti
e producendo quel sottile rivo di musica autentica e veramente bella fra le
montagne di rifiuti del jazz commerciale.
Questa
lotta fu condotta in un ambiente in cui ogni nuova idea era oggetto di ostilità
da parte degli impresari commerciali, solo per essere rubata, formalizzata ed
edulcorata per farne il « successo » degli anni seguenti.
In questo
periodo i musicisti negri erano i peggio
pagati, più disoccupati, e nella maggior parte dei casi, salvo rare eccezioni,
messi al bando dalle orchestre bianche.
S. Finkelstein, Come la
musica esprime le idee, Feltrinelli,
Milano, 1955
Mentre il jazz si diffonde in tutto il mondo, più o meno
plagiato dalla società dei consumi, verso il 1950 prende auge in America una
nuova voga: il rock and roll .
Un'istintiva
frenesia di vita, mista allo scontento ed alla rabbia, spinge le nuove generazioni
americane a cercare nella «cruda» musica dei negri quella sincerità e spontaneità
di espressione che la società borghese aveva ormai soffocato.
Favorito dai potenti mezzi di
comunicazione, il pensiero dei giovani si diffonde in tutto il mondo.
Il ritorno degli anni ruggenti: la
rivalsa dei giovani di Mario Maffi
Dapprima
fu il jazz.
In quanto espressione d'una cultura oppressa, era un linguaggio più
che adatto ad esprimere le emozioni, il vasto, delicato e spesso tragico mondo
interiore dei giovani di quegli anni. La negazione di norme e regole, il
carattere fortemente aggressivo, l'affermazione di rivolta, e dall'altra parte
l'odio e l'incomprensione che s'attirava dai benpensanti, dagli squares,
(gli abitanti del centro cittadino) dai borghesi, erano già elementi più che
sufficienti ad avvicinare i giovani ad esso.
Inoltre
fra i suoi protagonisti, essi trovarono gli « idoli » che cercavano: modelli di
sregolatezza, di intensità emotiva, di energia vitale e la vena sotterranea - e
non sempre solo sotterranea - di violenza: rivolta contro l'esterno (la
società) e contro l'interno (se stessi).
L'esempio
più forte e travolgente è quello di Charlie « Bird » Parker, padre del be-bop dedito
ad alcool e stupefacenti, prestigioso
protagonista degli anni '40 del jazz: vita
e morte e musica giocate sempre sul piano della ricerca, della violenza, dell'emozione,
dell'intensità.
Ancora una volta, però, per il teen-ager, si trattava di una
componente culturale preesistente, legata a una generazione immediatamente
precedente alla loro: potevano aderire al suo linguaggio, alla sua esperienza
emotiva e vitale, alla sua sostanza, alla carica di negazione e protesta; ma
non era qualcosa di loro, creato da loro stessi a proprio uso e consumo, e in
fin dei conti era l'espressione d'una realtà sociale ben diversa, cui
riuscivano ad avvicinarsi i giovani intellettuali bianchi ma la cui
comprensione era troppo difficile per la gran massa dei teen-agers:
l'espressione della rabbia e della
ribellione era un elemento che essi comprendevano istintivamente, ma non
potevano andare oltre a questa comprensione istintiva e in ogni caso non si
trattava della loro rabbia,
della loro violenza, della loro
amarezza.
Cosi il be-bop ebbe valore e peso solo fino a un
certo punto, e solo fino a un certo punto entrò a far parte della « cultura
adolescente »: fu una componente essenziale piuttosto della beat generation e dell'attività dei giovani intellettuali bianchi di quegli anni, che non
della vita dei teen-agers.
A questo
punto nacque il rock 'n' roll'.
Il rock 'n' roll deriva dalla fusione tra musica country and western e blues; ma è soprattutto quest'ultimo che vi sta alla base.
Il blues è un dialogo continuo all'interno
della comunità di colore, il cui portavoce, il blues singer, non si pone mai al
di sopra o al di fuori d'essa (nella tradizione dell'artista occidentale
borghese), ma - pur creando i versi e la musica - è come se s'annullasse in
quanto individuo: si esprime in prima persona, ma le esperienze che narra sono
quelle tipiche della comunità, quelle che ogni individuo che ne faccia parte
potrebbe avere.
È dunque
la collettività la vera protagonista del blues: alienazione, solitudine, forzata
mancanza di rapporti stabili tra i due sessi, eros,
insoddisfazione,
vagabondaggi, violenza, tutti temi che ricorrono, rivissuti nell'esperienza
quotidiana riferita alla comunità ed assumono significato universale (non nel
senso reazionario, idealistico del termine; universale, in quanto sostanza
della vita d'un certo settore particolare della
popolazione americana, e più precisamente di una classe - quella proletaria -
che supera le limitazioni nazionali, culturali, geo-politiche).
M. Maffi La cultura underground, Laterza, Bari 1972
Personaggi patetici
si avvicendarono sulla scena de rock anni cinquanta, esaltati da un facile
successo , presto accantonati. Il più noto fu certamente Bill Haley. È a lui
che va il merito di aver portato il rock ad una massa enorme, di aver
favorito il processo di scoperta d'un'identità da parte del teen-ager. Sarà
proprio lui, però, la prima vittima di quella campagna pubblicitaria che
segnerà l'entrata del rock nel monde degli affari e l'integrazione al sistema della subcultura di massa.
La mercificazione
del rock di Mario Maffi
Tin-pan
Alley, come viene chiamata Madison Avenue, il quartiere degli affari nuovayorkese
che si occupa del la musica leggera, come Denmark Street a Londra vide cosi
aprirsi un'enorme riserva di caccia. Si trattava ora di sfruttare questa
riserva, sorvegliando attentamente il nuovo gusto e la muova mentalità e
lavorar do con un astuto meccanismo di azione e reazione, ai dando incontro ai teen-agers
e nello stesso tempo manovrandoli, creando nuovi idoli in base alle
loro aspirazioni e gettandoli sul mercato con un'astuta manovra pubblicitaria.
Fu
un processo sottile e inarrestabile.
Dagli
inizi genuini del rock nei primi anni del '50, giunse all'alba dei Sessanta, e
nel frattempo il rock si era distaccato dal blues e
aveva cosi perso quanto di più istintivo, sincero, erotico, emozionale e
contestativo aveva agli inizi; s'era ridotto a una squallida storia di mercato,
di investimenti, di pubblicità, di programmi radio-televisivi comprati per
lanciare questo o quel cantante, di idoli fasulli, di formule musicali vuote,
di sentimentalismo insulso.
L'entrata
del rock
nel mondo degli affari segnava la sua trasformazione in espressione
musicale presentabile, ripulita, accettabile secondo i canoni borghesi: in
perbenismo musicato.
Il
rock aveva
perso ogni forza, ogni consistenza, era stato letteralmente castrato; la
carica erotica e vitale era stata imbrigliata, repressa, soffocata; il mercato
aveva risucchiato la prima genuina espressione giovanile.
Madison
Avenue aveva fornito un'identità di gruppo ai giovani tra i quattordici e i
ventun anni (i teen-agers), e quest'identità di gruppo portò a qualcosa come
una coscienza di gruppo e ciò a sua volta « diede origine a una valutazione
critica e in certi casi emozionale del mondo come era stato modellato dalla
generazione precedente.
Il
capitalismo, noto per la sua brama di mercificare ogni tipo di sovversione a
condizione che ci sia una possibilità di profitto, cominciò ad offrire ai teenagers
tutta una serie di eroi: « dapprima del genere che pensava andasse
bene loro, ma più tardi, sempre più in vista del profitto, forni loro un tipo
d'eroe adatto al crescente atteggiamento iconoclasta dei giovani.
Questi
antieroi venivano tratti dalle schiere degli sbandati della generazione
precedente: Marlon Brando e i suoi motociclisti in Il selvaggio erano stati
ispirati dalle bande di veterani di guerra, incapaci di reinserirsi nella società
stabile e pacifica.
Ma
prima che l'industria musicale si impadronisse del rock, prima di arrivare a
quel Giano bifronte che è Elvis Presley (idolo del rock e del mercato,
provocante-rispettabile), prima di quegli anni di svuotamento e impoverimento
quasi totale del grande filone musicale, ci fu un denso periodo in cui
apparvero i grandi di questo genere, personaggi genuini, immediati, autentici
artisti che si rivolgevano ai teen-agers senza diaframmi affaristico-pubblicitari,
senza manipolazioni ed ingrandimenti di managers e talentscouts.
I
loro « fenomeni » non erano mai prefabbricati, la carica emotiva e l'entusiasmo
delle loro esibizioni erano autentici, non studiati o ricercati, nella tradizione
più pura del blues e del jazz più disinteressati espressioni
immediate di un'esperienza e di un periodo riflessi in un certo settore della
popolazione americana.
Le
canzoni di Chuck Berry, Little Richard (Penniman) Fats Domino, Jerry Lee Lewis,
Gene Vincent, Eddie Cochran, ecc., ricreano l'ingenuità del teen-ager,
la su mentalità, il suo gergo, il suo codice di comportamento, il
suo mondo fatto di sabati sera, balli, cinema in ultima fila con la ragazza,
sesso incompleto e turbolento. Chi li scriveva era in contatto diretto (mentalmente
ed emozionalmente) con il proprio pubblico: a volte rozzi, inarticolati,
espliciti fino alla goffaggine, spesso superficiali, i grandi del rock erano
però estremamente sinceri e disinibiti, privi di qualunque artificiosità, le
antenne sensibilissime d'un nascente settore della popolazione, e produssero
una vera, fondamentale espressione musicale.
Fondamentale
al punto da rimanere il termine di paragone più immediato, la vera forza
sotterranea di tutta l'esperienza successiva, la boa d'avvicinamento o
d'allontanamento dalla quale poteva significare la validità o meno (e sempre il
significato) di esperimenti musicali; e la dimostrazione viene proprio dal
fatto che al rock 'n' roll si ritorna verso la fine del '60 e gli inizi del
'70, dopo esperienze svariate e più o meno valide e divergenti.
M. Maffi, La cultura
underground,
Laterza, Bari, 1972.
E’ solo verso 1960, però, che il rock and roll,
spostandosi in Inghilterra, assume un volto decisamente di protesta,
staccandosi definitivamente dalla cultura ufficiale. La protesta si manifesta successivamente su scala internazionale
come resistenza di una generazione che acquista coscienza delle varie forme di
manipolazione a cui è soggetta. Sul piano musicale, trionfa il beat.
Liverpool: la New Orleans
d'Europa di Rolf Ulrich Kaiser
Liverpool potrebbe corrispondere a New Orleans cosi
com'era all'inizio del secolo. Racconta Mike Evans, sassofonista dei Clayton
Squares nonché saltuariamente studente di sociologia e poeta: “Il
benessere del porto, sviluppatosi sui profitti del cotone e dello schiavismo,
in quanto tradizione cosmopolita per la vita di questa città, vi gioca lo
stesso ruolo dominante che aveva
giocato allora a New Orleans la città natale del jazz. Liverpool
non somiglia a nessun'altra parte del Lancashire, la lingua e il tempera mento
privi di ogni apprezzabile rapporto con le forme d'espressione delle città
vicine, sono un miscuglio di elementi inglesi, gallesi e irlandesi. Data tale
struttura della popolazione, il caratteristico bisogno d'indipendenza della
gente di Liverpool è praticamente inevitabile: sin dall'infanzia le si inculca
l'idea di essere in un, certo senso gente speciale”.
Liverpool
è il centro del Merseyside, un'area che concentra più di un milione
di abitanti. La città stesse conta oggi circa 500 mila abitanti; nel 1931 ne
contava circa 850.000. A quell'epoca la crisi economica internazionale fu per
Liverpool un colpo dal quale non si è più ripresa.
Gli
attacchi aerei tedeschi durante la seconda guerre mondiale distrussero il centro
della città assestandole il secondo, durissimo colpo.
Benché
nel frattempo a Liverpool si siano insediate nuove industrie, lo spavento è
ancora nelle ossa, le ferite non sono ancora rimarginate. Sotto la superficie
continuano ad esistere le tensioni sociali; il clima di lavoro è - a detta di molti - pessimo; gli slums e i
quartieri poveri non sono affatto stati eliminati. Liverpool è una
miccia per conflitti, un vespaio di problemi irrisolti.
In
questa Liverpool spuntò la stella della nuova musica.
Il
livello medio del pubblico corrisponde abbastanza quello dei suonatori. Li
accomuna il fatto di essere giunti a questa musica senza nessuna preparazione
specifica. I suonatori lavorano come apprendisti, decoratori, falegnami,
commessi di drogheria, radiotecnici, tipografi, segretari di studi legali,
stampatori; studenti universitari sono in minoranza. Le barriere sociali erano
abolite, non esistono privilegi culturali.
Il
gruppo più famoso sarebbe stato quello dei Beatles. Vivevano in gruppo,
lavoravano in gruppo, e forse questo consisteva il loro segreto. In precedenza
ciascuno di loro, a casa, a scuola con i compagni, aveva fatto di testa propria
ed era stato il capo. Nel gruppo invece, doveva di punto in bianco aver
riguardo degli altri e accettare limitazioni alla propria individuali Questo
processo, consolidato senza dubbio dal duro lavoro svolto prima nei clubs e poi
durante le tourneé li aveva saldati insieme in una vera unità.
Il loro, però, non è un caso unico; semmai lo sarebbe per
la durata della loro attività comune. Proprio il gruppo è una caratteristica
di una parte della nuova musica pop. A crearla, infatti, non sono soltanto i
grandi singoli, i solisti, anche se spesso comuni del genere finiscono per
sciogliersi e alcuni musicisti vogliono lavorare esclusivamente da soli. Il
lavoro è diventato assai complesso, la scelta di ciò che può essere prodotto è
ricchissima. I gruppi sono costituiti in parte da comuni in parte da unioni
molto fluttuanti. Un gruppo nasce per caso come per caso si allarga o si
restringe. Ma quasi sempre il caso è strettamente collegato all'impostazione
creativa dei musicisti.
«Per dieci anni, dal 1956 al 1966, i Beatles» come osserva
Hunter Davis « hanno vissuto non solo una vita in comune ma hanno vissuto in
comune la stessa vita ». Fin da quando si conobbero e divenne di moda fare
insieme della musica a Liverpool, quando nacquero i numerosi complessi-comuni,
già allora si parlava di una grande comunità beat. Il beat
voleva dire un
piccolo regno a sé. La jam session aveva rotto i confini del jazz-club
invadendo l'intera città.
« Ma poi » prosegue Ringo Starr «vennero le case
discografiche con i primi contratti, ebbe inizio la mercificazione e di colpo
suonare fra noi senza inibizioni non fu più cosi semplice». 1 vari manager
badavano ciascuno al prestigio del proprio complesso. La comunità si spezzettò
in tante piccole cellule.
R. U. Kaiser, Guida alla- musica pop, Mondadori, Milano,
1971.
Quanto
precedentemente era avvenuto per il jazz ed il rock., si è verificato
anche per il beat: alla sua entrata nel mondo degli affari ne sono
conseguiti un perbenismo ed una ripulitura dettati dai canoni borghesi.
In alternativa alla
mercificazione degli impulsi della beat-generation sorgono tuttavia altre
ispirazioni culturali che proclamano la loro estraneità al sistema tanto che
verranno definite underground (sotterranee), per significare il loro
rifiuto dei canali normali di diffusione. Negli Stati Uniti la «
beat-generation scopre le antiche civiltà decimate
dai loro diretti progenitori, e le filosofie orientali. Le civiltà maya,
azteca, inca, e lo zen informano la controcultura dell'underground fintanto che, ripiegato su
condizioni di comodo, esso non verrà superato dall'underground politico,
o movement.
Attaccando a fondo i
tabú borghesi, la cultura « underground » cerca una nuova forma comunicativa
abbattendo ogni settorialismo e ogni diaframma separante pittura, musica,
teatro e cinema e ritorna alla concezione di una poetica intesa come rito di
comunicazione collettiva. In questa fase anche la musica ritorna indietro, al
« blues », al « jazz », e riscopre il canto popolare come espressione più viva
di ogni cultura del popolo. Ma simbolo degli anni sessanta rimane la protesta
clamorosa, espressa anche attraverso la musica.
Anticonformismo
e droga per le stelle della musica «beat»
di Rolf Ulrich Kaiser
I
Beatles erano diventati famosi grazie al loro duro rock-sound che tuttavia, col passar del tempo,
avevano ammorbidito adottando una linea melodica più orecchiabile. A poco a
poco i loro testi e le loro melodie gettavano un ponte verso la generazione più
anziana. 1 Rolling Stones invece colpivano in faccia proprio quella generazione,
ergendosi a difensori dei « giovani ribelli ».
Lo
dimostravano con il modo disinvolto di usare ripetutamente come gabinetti i
distributori di benzina e le porte dei garage. Lo dimostravano con i loro
processi per uso di stupefacenti, processi che scatenarono violente proteste
da parte della stampa inglese benpensante: non dovevano dimenticare di essere
dei divi, degli idoli, e di avere perciò una responsabilità ben precisa e
l'obbligo di rispettare i limiti della propria libertà. Mick Jagger rispose che non gliene importava niente
perché lui e i suoi amici vivevano come volevano:
“Divi e celebrità
del genere non dovrebbero occuparsi di questioni morali. Chi siamo noi per
giudicare cosa è bene e cosa è male? Che senso può avere”.
Nelle loro canzoni i Rolling Stones predicano un'altra morale
invitano al « viaggio » con la droga o cantano: « Dormiamo insieme stanotte ».
In principio si vestivano a modo loro senza sottomettersi alle regole
divistiche: capelli lunghi e trascurati, calzoni sudici e logori.
Per tutte queste ragioni, dal punto di vista commerciale,
ebbero maggiori difficoltà dei più accomodanti Beatles; per esempio il loro
disco Flowers non ver ne molto spinto perché in quel momento si
svolgeva contro di loro il processo per la droga. Scrive Bob Dawbarn: “Gli Stones erano esattamente il contrario
dei Beatles. Mentre i Beatles diffondevano un'atmosfera di intelligenza ben
temperata e di generale amabilità, conquistando cosi i genitori, gli Stones con
le loro chiome arruffate, con quella ventata di ribellione generale che li
circondava, spaventavano tutti quelli che avessero superato i 25 anni”.
I Beatles si sono raccomandati ai genitori come bravi e
buoni coeducatori. I testi delle loro canzoni, seppur sinceri, sono facilmente
integrabili nel generale processo educativo. Gli Stones, invece, non pensavano
al fatto a ripulire i loro testi dalla screanzata malizia ch li pervade.
La differenza fra i due complessi stava nel loro diverso
pubblico. Almeno dalla fine delle esibizioni di Liverpool in poi, i Beatles non
hanno più fatto della musica per un pubblico specifico di giovani, ma dell'entertainment elettrico per chiunque pretendesse
di esser moderno.
I Rolling Stones hanno invece continuato a rivolger al
loro pubblico di giovani, le cui azioni più rilevanti nella seconda metà degli
anni sessanta, erano le dimostrazioni, l'opposizione al sistema autoritario
della società in cui vivevano. Gli Stones avevano fiutato questo processo e vi
si erano adeguati con una canzone s la frustrazione generale (Satisfaction), con la pretesa emancipazione sessuale (Let's spend the
night together),
con l'inno commerciale alla rivoluzione (Streetfighting man).
Pur non avendo assolutamente nulla
a che fare con vere azioni sociali della giovane generazione, gli Stones
puntarono sulla vena progressista e imbastirono canzoni-surrogato, insomma
sfruttarono commercialmente la lotta di strada.
L'uso della droga provoca conseguenze penali. Gli imputati
più popolari furono i Rolling Stones, mentre i Beatles e altri divi del pop li
difesero. « I'd love to turn you on », vorrei mandarti in orbita, questo
l'augurio espresso dai Beatles in A day in the life, che hi BBC proibì ai suoi disc jockeys di trasmettere.
R. U. Kaiser, Guida alla musica pop, Mondadori, Milano, 1971.
La seduzione del « sistema », dell'integrazione nel potere economico è
sempre stata la grande nemica dell'underground. Dopo l'esplosione dei
primi anni, colmi di entusiasmo ed ottimismo, quasi inavvertitamente il pop si è trovato agganciato alle esigenze produttive e ideologiche dell'industria.
Solo quando la radicalizzazione ha toccato nel 1968 anche i « figli dei fiori
» lo « underground » è passato dalla sperimentazione e dalla non-violenza alla
caotica ma necessaria politicizzazione.
Politicizzazione delle correnti
sotterranee: gli anni settanta e il movement
di Mario
Maffi
Si aprono gli anni settanta, e il termine underground (che deriva dal nome di una ferrovia sotterranea che serviva
all'espatrio clandestino degli schiavi dal Sud all'estremo Nord dell'America
Settentrionale), almeno per quanto riguarda il
connotato originario, diventa improprio: perde infatti ogni significato
strettamente culturale, cessa d'essere il termine distintivo di quel settore
del dissenso affidato alla parola scritta, all'immagine cinematografica, al
gesto teatrale, al segno grafico, all'esperimento culturale o sociale hippy e
s'allarga ad abbracciare tutta quella realtà che, con finalità e vie diverse,
dissente dal sistema americano e propone soluzioni e modi di lotta.
La cultura si fonde e si subordina alla politica; l'underground esiste sempre, con le sue strutture e creazioni vivificate da questo
contatto con la politica radicale, ma entra a far parte d'un corpo ben più
vasto alla cui formazione partecipa tutta una varietà d'indirizzi: il « movement ».
Il « movimento » è il nuovo fronte del dissenso negli anni
settanta: un fronte farraginoso e proteiforme in cui confluiscono le istanze più
lontane e disparate. Si passa dunque dalla politica riformista e settoriale delle
organizzazioni studentesche e dalla apoliticità appartata degli hippies, al
caotico e frenetico impegno politico su basi che vengono mutuate un po' da tutto il
panorama e da tutta la storia della sinistra.
In questo apocalittico attacco al sistema si cerca di superare
ed annullare definitivamente i punti morti della tradizione-anni sessanta del
dissenso interno: non-violenza, individualismo, visione romantica dell'impegno
politico. Ma se è stato relativamente facile scardinare il mito
piccolo-borghese della non-violenza, quello altrettanto piccolo-borghese
dell'individualismo resiste ed entra con forza come componente del movement, trascinando
con sé il proprio figlio legittimo: la rivoluzione come impresa romantica, come
richiamo alle gesta d'un personaggio; e il nipote deforme, la varietà di numi
tutelari, indizio d'una incertezza teorico-ideologica di fondo.
Gli strati geologici del dissenso sono esplosi, frantumando
ogni tendenza alla cristallizzazione e al settorialismo, e nel caos frenetico
cercano di trovare una linea comune e determinante, collegata alle lotte
internazionali: è questa l'enorme realtà del movement. La base anarchica impedisce il
delinearsi - almeno per ora - d'un partito, e favorisce il decentramento,
esalta l'indipendenza dei gruppi pur nel fine comune ed unico.
M. Maffi, La cultura underground, Laterza, Bari 1972
La formazione di gruppi sempre più politicizzati in ogni parte del mondo agisce da molla
potentissima ne processo di crescita delle organizzazioni studentesche
Attrezzature molto complicate e costose vengono acquistate per la composizione
non già di musica colta, ma per portare al parossismo l'urlo sgorgato dal «
beat ».
La preparazione Culturale dei componenti dei vari complessi permette loro di sfruttare tutti i segreti dell'elettronica, al fine di esaltare il contenuto artistico e politico dei loro canti.
La preparazione Culturale dei componenti dei vari complessi permette loro di sfruttare tutti i segreti dell'elettronica, al fine di esaltare il contenuto artistico e politico dei loro canti.
Pop come politica di Rolf Ulrich Kaiser
Lo spettacolo dei Fugs
Si procurano degli strumenti, Naphtali “Tuli” Kupferberg
racimola un mucchio di cianfrusaglie e due grosse valigie nere per riporle.
Mettono insieme uno show nel quale Tuli illustra l'azione con pupazzi,
manifesti, pagliacciate ecc. Il cast è un tipico cast beat. Prima d'ora i Fugs hanno fatto
solo qualche volta degli esperimenti musicali. Adesso producono uno show
completo, uno spettacolo a se stante di un'ora e mezza. Dopo i primi dieci
minuti almeno una dozzina di benpensanti lasciano la sala scossi e perplessi.
Kupferberg cosí commenta: “Ovviamente noi
vogliamo che tutti vedano il nostro spettacolo. E proprio quelli che se ne
vanno sono prbabilmente quelli che hanno più bisogno del nostro messaggio. Ma
è inevitabile: non lo possiamo mutilare per far piacere a loro; tutto bello e
gradevole non avrebbe più alcun senso.
Però riusciamo a
trascinare molte persone dalla nostra parte; succede ogni sera. All'inizio
dello spettacolo c'è molta incertezza e nervosismo. Qualcuno se ne va - per via
del gergo, delle allusioni sessuali o forse anche del nostro indirizzo politico
-, gli altri invece si guardano attorno con fare nervoso per vedere cosa fa il
vicino. E poiché c'è sempre chi trova tutto divertente, chi applaude, anche
loro ridono, dapprima timidamente e poi di cuore. Cominciano a capire, e dopo
un po' anche loro applaudono. Ecco come qui da noi avviene una specie di
processo educativo”.
Lo spettacolo dei Fugs è eminentemente politico. Lo dimostra
la critica sociale, per esempio, della canzone Nothing, nella quale al successo idolatrato
dalla società USA si oppone la negazione totale del nothing. Lo si capisce chiaramente quando i
Fugs marciano in testa ai dimostranti di New York e Tuli Kupferberg dagli USA
scrive in Germania: “Le nostre azioni
incalzano. Sarà emozionante e splendido, se sopravviviamo a tutto. Noi siamo probabilmente il gruppo rock più
politico degli USA. Io ero rivoluzionario già prima che nascessero i Fugs. Ciò
che facciamo attualmente è una specie di propaganda nel migliore senso della
parola; infatti non siamo dei realisti socialisti. I miei obiettivi rivoluzionari
sono l'anarchia, il pacifismo anarchico e il comunismo. Spero in una società
senza classi”
Pop di guerriglia
Non viene cantato ma gridato, monotono come un annuncio,
ripetuto sempre uguale con un ritmo piatto: “We want the world to be free!”. “Anche
se oggi avete ancora i fucili, domani il mondo sarà libero”.
Viene ripetuto, poi attacca con fragore la prima cascata
d'organo, che viene smorzata, inghiottita dalle chitarre. Continua in questa
maniera, qua e là un assolo di chitarra, ogni tanto uno slogan. Ma certamente
non è quello che si suole definire buona musica. Eppure questa musica è importante.
Fin dentro al loro ritmo piatto o a quello stupendamente insensato Papa-Oo-Mao-Mao queste canzoni hanno un
legame con la nostra vita d'oggi. Il 33 giri “Disposable”dei Deviants (cui si riferisce questa parte del brano),
indica 19 persone come autori dei 13 pezzi.
Una di esse è Mick Farren che in molti suoi articoli si è
battuto per una musica pop e musicisti pop che non abbiano più scritto «
vendibilità » sulla loro bandiera.
Deforma la canzone All
together dei Beatles cantando: “Andiamo a incendiare il supermercato!”.
A Londra Mick Farren incita al « pop di guerriglia »,
poiché « la musica pop è uno degli ultimi strumenti liberi ». Nella prima fase
s'era trattato di trovare dei complessi pop; ora poteva iniziare la seconda
fase.
“Vogliamo andare con
i complessi pop nelle strade e nei giardini pubblici. Centinaia di ballerini in
un pomeriggio di sabato sono più efficaci di una dozzina di marce di
protesta. Ma ci occorre aiuto. Se conoscete spiazzi liberi, parcheggi, parchi
di ricreazione, un posto con qualcuno vicino che ci dia la corrente elettrica,
fatecelo sapere”.
(R. U. Kaiser, Guida
alla musica pop, Mondadori Milano, 1971)
Uno dei fenomeni più
intensi di politicizzazione musicale si è avuto proprio nel jazz , con
l'avvento del cosiddetto free jazz (" jazz libero).
L'intuizione maggiore di questo movimento è data dall'accentuazione di tutti
quegli aspetti del jazz che favoriscono la libera creatività e la spontanea
esecuzione anteposte alla codificazione del ritmo in regole coercitive, sempre
uguali. Il passaggio al free jazz si accompagna non a caso ad una
maturazione della coscienza politica e delle lotte di liberazione della
minoranza negra, che riscopre i propri caratteri culturali originali, afro-americani.
La presa di coscienza dei
musicisti afro-americani di Giacomo Pellicciotti
Attorno alla musica e al suo mondo sono state sempre erette,
come barriere false e artificiali, svariate categorie e classificazioni di
comodo, che si sono consolidate negli anni fino a divenire vere e proprie
istituzioni. Venti anni fa pur in mezzo a tante sfumature e colorazioni, i mass media facevano
mostra di sapere esattamente se un brano musicale apparteneva all'impero della
classica, al reame del jazz, al principato del folk, alla
mafia della leggera o a chissà quale altro dominio. Ma adesso i cardini
cigolano arrugginiti e le porte si stanno aprendo: in mezzo a manipolazioni
commerciali furbissime, si va ogni giorno di più affermando una sana tendenza
che vuole e ricerca una musica libera, che respiri, viva e umana, con parecchi
interscambi tra differenti linguaggi e culture musicali di paesi lontanissimi
tra loro. Una musica totale.
Ma se la lotta ancora è aperta ed ardua, diversi sono i
fatti e gli elementi che hanno condotto alla situazione odierna, e non si
tratta sempre di motivi solo e rigidamente artistico-musicali. Per averne la
prova, basterà riflettere un po' su uno dei fenomeni più importanti degli
ultimi anni: quel movimento della musica afro-americana a cui è stata
appiccicata l'etichetta (tutto negli USA viene etichettato ed inscatolato come
una merce...) di Free Jazz o New Thing.
Che la musica negra si sia mossa costantemente negli USA in un background che è andato al di là del puro
oggetto musicale, sconfinando spessissimo nei risvolti di carattere socio-politico,
è un dato di fatto documentabile con numerosissimi esempi. Basta pensare a
certi blues di Bessie Smith, di Big Bill Broonzy e di centinaia di altri cantori
(conosciuti e non) dello sfruttamento e dell'asservimento della gente nera da
parte del potere bianco. Oppure ci si può ricordare di Billie Holiday, la
grandissima cantante che lottò tutta la vita contro una condizione di inferiorità,
rimanendone purtroppo vittima (esemplare rimane ancor oggi il suo terribile
grido di accusa in Strange Fruit ).
Poi venne il bop e Charlie Parker ne fu l'apostolo più
geniale, più sfortunato, ma pure quello che, nei momenti di lucidità, dimostrò
quant'era consapevole di essere tenuto in una condizione disumana insieme alla
sua gente.
Ma durante gli anni '50 gli esempi si moltiplicano, a mano
a mano che le condizioni sociali si trasformano e che il popolo nero acquista
una sempre più matura consapevolezza. Il batterista Art Blakey con i suoi jazz
Messengers si richiama espressamente all'Africa; il sassofonista Sonny Rollins
registra una composizione dal significativo titolo di Tbe Freedom Suite 4; il batterista Max Roach con la sua fierissima
moglie di allora, la cantante Abbey Lincoln, rincara la dose con la fortissima
We
Insist: Freedom Now Suite! s; infine (ma di esempi ce ne sono parecchi altri) il
focoso bassista Charlie Mingus schernisce con violenza il razzismo con il suo
beffardo Original Faubus Fables 6. Ma
ormai i tempi sono maturi: sta nascendo un nuovo modo di fare musica, più
libero, più coraggioso, più radicale, più cosciente, più
politicizzato... Alla fine del 1960, proprio quando John F. Kennedy vince le
elezioni presidenziali, 1'altosassofonista Ornette Coleman registra con una
formazione inedita, un doppio quartetto, un'opera rivoluzionaria che occupa
entrambe le facciate di un album. Si chiama Free Jazz e sarà il manifesto e l'emblema prestanome di tutta
una scuola e un'epoca.
Nelle avanguardie più consapevoli si sviluppa un alte
livello di coscienza politica: le rivolte nei ghetti neri si susseguono con
ritmo impressionante.
E se in passate la denuncia e la protesta hanno sempre
affiorato ne migliori esempi del blues e del jazz, ora che la coscienza
politica e più forte e generalizzata nel popolo nero, tale spirito di rabbia e di
rivolta non può non essere continuamente presente e determinante nella musica
nera degli anni '60.
Al di là di tutte le spiegazioni formalistiche e tecniche,
a cui sono ricorsi i numerosi critici ufficiali (quelli che ancora oggi
purtroppo detengono il potere sui mass media più diffusi e compromessi con
l'industria musicale), il grido di protesta del popolo nero era il motivo e la
spinta dominante che informava e permeava la nuova musica, il Free Jazz o New Thing (o con chissà quale altro nome la si voglia chiamare). Solo
pochi scrittori più direttamente e correttamente coinvolti in quel mondo
capirono sul serio, e guarda caso i primi furono proprio afro-americani.
Leroi Jones anzitutto, con libri come Il popolo del blues e Black Music, oppure A. B. Spellman con numerosi saggi. In Europa
ci si arrivò più tardi, sulla scorta di tali precedenti, ma finora si possono
contare con le dita di una mano quelli che hanno impostato il problema su basi
rigorose e corrette ideologicamente.
Un libro come Free Jazz / Black Power dei francesi Carles e Comolli, pur
con una certa rigidità e intransigenza, è
molto vicino alla meta nel tentativo di
ridare alla musica nera, e alla New Thing in particolare, un volto più reale, più sociale, e meno falsamente e
superficialmente jazzistico e basta.
Ma i tempi e le situazioni procedono rapidamente: la situazione
politica muta, le lotte più violente e radicali vengono riassorbite dal potere
dominante, i neri perdono i loro migliori leaders, il capitale riprende fiato
per un po'...
Anche la colonna sonora cambia. Il tempo della rivolta più
aspra cede il passo ad un paziente lavoro di ricostruzione critica, sulle basi
precedentemente edificate proprio dagli uomini della New Thing. C'è ancora tempo per il contrabbassista bianco Charlie Haden (siamo nel
1969), il compagno fedele di Ornette Coleman, di costituire una formidabile
orchestra dall'inequivocabile nome di Liberation Music Orchestra.
Ci sono quasi tutti (Cherry, Barbieri, Rudd, l'altro
colemaniano, Dewey Redman, la Bley e tanti altri), che producono una musica i
cui riferimenti politici non si possono affatto ignorare.
I temi scelti da Haden per l'occasione sono i canti della
guerra di Spagna, la morte di Che Guevara, la repressione delle manifestazioni
pacifiste durante la convenzione democratica 8 di Chicago. Uno dei risultati più
sintetici e completi di un movimento che ha ormai lasciato delle tracce
indelebili e profonde non solo su tutta la musica afro-americana, ma su più o
meno tutti i tipi di musica attuali.
Ed è cambiato pure il modo di considerare la musica, mai più
uno strumento passivo d; diletto per le orecchie e per gli altri sensi, ma un
commentario sonoro vivo e partecipe, legato in modo indissociabile alla realtà
sociale e politica del presente.
Grazie al lavoro rivoluzionario degli uomini della New Thing, gli
ultimi giovani musicisti neri si sentono svincolati. Il jazz è
uscito finalmente dal ghetto. Il jazz è morto. Sta facendosi strada
finalmente la musica totale!
E i vecchi critici arteriosclerotici non sanno consolarsi,
né rassegnarsi: dicono che il Free Jazz è finito, morto e sepolto, e che in
fondo è stato cosa da poco. Non c'è bugia più squallida e falsa,
poiché la musica di tutto il mondo non è più la stessa dopo allora. E mai la
musica afro-americana ha avuto più ampia rilevanza sociale.
(G. Pellicciotti, inedito per Generazione zero, 1974).
Lungo il corso dei
secoli il canto popolare (etnico) e sempre
stato trasmesso oralmente e considerato « res nullius », cosa di nessuno. Solo
di recente l'etnomusicologia si è interessata a fondo del problema ed ha impiegato
mezzi notevoli al fine di salvare quanto restava di un patrimonio culturale che
ha vissuto notevoli traversie. A Roberto Leydi va il merito di aver saputo
raccogliere, nel momento storico più favorevole un vasto repertorio di canti
appartenenti alle varie regioni italiane.
La musica popolare di Roberto Leydi
Fino a pochi anni fa problema chiuso nell'attenzione di
alcuni specialisti isolati, la musica popolare pare oggi approdare alle sponde del
successo, della moda, forse anche del consumo di massa.
Se ieri l'ansia dei pochi che credevano al significato di
provocazione culturale delle manifestazioni attive del mondo popolare era, da
un lato, di realizzare la più ampia e compiuta raccolta possibile del materiale
(per colmare un gran vuoto e per inseguire il disfacimento del tessuto
tradizionale) e dall'altro di spezzare l'emarginazione e rompere i decrepiti
schemi accademici del folklore per inserire la loro problematica nel dibattito
vivo, oggi la loro preoccupazione è di contrapporre alla mondanizzazione alienante
e alla mistificazione consumistica del folk il rigore di un intervento senza
spazi per le ambiguità, gli equivoci, gli esiti della logica del profitto e del
successo.
C'è certo da dire che la moda del folk ha investito
una parte soltanto del materiale comunicativo popolare, quello cioè che era
riducibile a canzonetta o cabaret e quello in cui la forza
provocatoria non e prepotentemente emergente, ma anche in questi
limiti il processo di intorbidamento e di inquinamento dell'industria della
musica porta conseguenze assai gravi, ingenerando confusione e, soprattutto,
mortificando il nascente interesse di moltissimi giovani per la musica
popolare e per quanto questa musica testimonia.
Questo interesse si colloca - secondo il mio giudizio -
nell'ambito di quella generale insoddisfazione « del pubblico giovane per
quanto riguarda sia i contenuti delle canzoni di consumo sia le forme musicali
» ma anche nel filo di una più ampia e profonda presa di coscienza della
realtà, delle contraddizioni in cui i giovani si trovano a vivere, del bisogno
ansioso di autenticità, tutti elementi che la musica di consumo non è in grado
(e non vuole) di rendere manifesti.
Naturalmente nel gioco entrano, con violenza, altre
componenti, messe in moto dall'industria del divertimento e dal sistema
consumistico le cui capacità di utilizzare commercialmente ed esorcizzare
culturalmente le istanze autentiche dei giovani sono ormai enormi, fino al
punto di impedire all'ansia vera dei più di rendersi conto della strumentalizzazione
di cui sono vittime.
In questa logica, la spirale della ricerca del profitto
(soprattutto in una situazione di tipo coloniale qual è quella della musica di
consumo in Italia) allarga sempre di più le prospettive di sfruttamento delle
istanze del pubblico per farne una moda allargata a un consumo sempre più vasto.
Già oggi vediamo come, in Italia, l'industria discografica
e la RAI-TV cerchino di coprire l'intero arco delle possibilità commerciali del
cosiddetto folk per includere sia un pubblico che presume di sapere
scegliere, sia quel pubblico che ormai a scegliere ha rinunciato. Di qui i
molti livelli apparenti del folk commerciale, da un genere
apertamente canzonettistico a un genere falsamente « autentico », da un genere
apertamente evasivo a un genere pretestuosamente impegnato.
Ai margini il lavoro dei pochi cantanti che operano,
faticosamente, nel filo del folk revival,
rifiutando il condizionamento commerciale e anche la strumentalizzazione
politica contingente e volgare. Il loro impegno è quello di operare per una
nuova circolazione non alienata, nella realtà contemporanea, della
comunicazione popolare; non recupero consumistico ma inizio (se possibile) di
un procedimento ritrovato di espressione autonoma dalla subcultura imposta
dall'egemonia; contributo alla fondazione di una nuova cultura per una nuova
società.
Il folk revival si colloca, quindi, come componente
di un più ampio movimento che coinvolge anche, nelle sue connotazioni
ideologiche, la ricerca etnomusicologica.
La ricerca etnomusicologica più avanzata, infatti, ha
ormai acquisito coscienza che l'interesse per la musica delle culture orali
tradizionali può applicarsi lungo un arco molto esteso che va dalla ricerca
specialistico-formale (di carattere musicologico), alla ricerca in ambito
antropologico, sociologico, filologico, storico, psicologico ecc. e
addirittura confluire nell'intervento attivo a livello di azione/ provocazione
culturale e politica.
Alla scienza etnomusicologica, cioè, si possono chiedere
gli strumenti per una corretta lettura degli oggetti comunicativi
orali-tradizionali formalizzati dalla musica; per una definizione formale dei
sistemi strutturali entro i quali gli oggetti comunicativi si collocano; per il
riconoscimento comparativo dei vari « sistemi ». Ma si possono chiedere
anche alcuni strumenti primari o integrativi per identificare la dinamica
generale delle culture altre, siano
esse fuori o dentro il nostro territorio geografico e culturale; per cercare
di cogliere il segno non contingente della lotta
di classe e delle lotte di liberazione; per verificare l'estensione
dell'autonomia delle culture che furono dette subalterne; per leggere le linee
di talune trasformazioni socio-culturali già avvenute o in atto; per
intervenire nella restituzione del patrimonio comunicativo ai popoli e alle
classi che escono (o cercano di uscire) dalla subordinazione, sia essa quella
colonialistica o quella sociale.
In altri termini, la ricerca etnomusicologica può essere
assunta come strumento meramente formale (ma non per questo neutrale) di
comparazione fra sistemi diversi e
astrattamente dichiarati fra loro eguali (prolungamento della dichiarazione
d'eguaglianza fra tutti gli uomini delle costituzioni liberali) e proporsi
quindi, in concreto, come superficiale compensazione ai nostri rimorsi
eurocentrici; oppure come strumento di effettivo intervento per la restituzione
dei mezzi comunicativi (compreso il controllo dei veicoli di trasmissione) ai
loro legittimi proprietari cioè ai popoli che ne sono stati spogliati.
Dal tipo di domanda che alla disciplina etnomusicologica
vien posta ne deriva, ovviamente, una differente prospettiva ideologica e
pratica nella ricerca, un diverso atteggiamento verso il rapporto
testo/contesto, in definitiva un modo « altro » di collocarsi nell'indagine e
di fronte all'indagine. Ne consegue anche una diversa utilizzazione delle
metodologie, degli strumenti di ricerca, di identificazione e di
interpretazione, dell'assieme dei mezzi che la disciplina etnomusicologica
dispone per la razionalizzazione dell'oggetto che gli è specifico.
Da queste considerazioni discendono necessità articolate
di impegno sia per chi agisce nell'ambito della ricerca sia per chi presume di
poter intervenire direttamente con il revival.
E discendono responsabilità comuni fondate sulla presa di
coscienza documentata della realtà specifica della comunicazione orale/tradizionale,
dei suoi processi, del suo contesto. Affrontare la riesecuzione di un canto
popolare significa, per chi non vuol far ciò per assecondare una moda o per
soddisfare personali esigenze emotive od estetiche, approfondire la conoscenza
non solo di quel canto ma di tutto quanto quel canto manifesta e quel canto
motiva; e significa inseguire un'identificazione culturale, emotiva, ideologica,
persino sentimentale con il momento di vita di cui quel dato canto è funzione
espressiva. Il rischio è quello della soluzione accademica, della ripetizione
fedele ma insensata di qualcosa che già esiste.
La difesa può essere
nel collocare sempre il controllo accurato delle tecniche esecutive, desunte
dall'insegnamento dei vari cantori e musicisti popolari, nel contesto
della società che quelle tecniche ha espresso, vista come fenomeno dinamico,
quindi culturale e storico. Il fine del folk singer dev'essere poi quello di riuscire ad
esprimersi in prima persona, muovendo dall'interno del mondo popolare sentito
nella sua realtà contemporanea.
(R. Leydi, Canti popolari italiani, Mondadori, Milano,
1973).
Ogni qualvolta si
tenti di fare un bilancio qualitativo sulla canzone italiana ci troviamo di
fronte ad un dato di fatto inequivocabile: l'industrializzazione della canzone.
Infatti, con il potenziamento delle strutture industriali, la canzone ha
assunto il ruolo di un normale prodotto, di una normale merce e viene manovrata
con raffinata abilità dai monopoli culturali, case editrici e radio. Il
fenomeno canzone viene qui brevemente esposto da Ionio Prevignano Rapetti.
Consumismo musicale: la canzone di Ionio Prevignano Rapetti
Tremila
canzoni annue, duemila dischi nuovi, all'anno,
trecento
case editrici, cinquanta case discografiche, cinquecento cantanti che incidono
dischi: poche cifre che illuminano le strutture di quella attività umana che
nel mondo e in Italia - cui le cifre stesse si riferiscono - è diventata un
fenomeno dalla portata enorme, un fenomeno per tutte le tasche e per tutti i
ceti: la canzone.
Quante persone vivono, in Italia, su questa attività?
Proviamo a fare alcuni conti molto sommari: quarantaduemila strumentisti e
orchestrali, milleduecento impiegati di case editrici e quattromila di case
discografiche, duemila cantanti, trecento funzionari alla RAITV,
tremilacinquecento addetti di aziende stampatrici, quattrocentocinquanta autori
professionisti, una cinquantina di giornalisti specializzati, circa settanta cover
designers, che creano le copertine dei dischi e delle edizioni; insomma, tenendo
presente che in tutta Italia esistono duemilacinquecento negozi, ciascuno con
una media di tre persone addette alla vendita, la cifra che ne risulta è
imponente.
Infatti, moltiplicando per quattro - numero dei componenti
di una famiglia media - la cifra totale di circa sessantamila persone prima
ottenuta risulta che il mondo della canzone renda da vivere a quasi duecentocinquantamila
individui.
Ci si può ben rendere conto dell'importanza di una canzone,
di questo minuscolo prodotto dalla vita brevissima, di quali giri d'affari e
quali ingranaggi giganteschi essa possa muovere.
Una canzone: qual è, dunque, il suo singolo peso economico?
Tremila, abbiamo visto, sono le composizioni stampate nei
trecentosessantacinque giorni dell'anno. Non tutte, però, anzi, un'esigua
porzione realizza il proprio fine: il successo.
Oltre il sessanta per cento della produzione annua, infatti,
non arriva a coprire le spese di stampa. Le spese di stampa per orchestrina non
sommate alla media delle spese di lancio raggiungono la cifra di circa cinquecentomila
lire.
Una canzone insomma, comincia ad essere attiva allorché
supera il mezzo milione di reddito. Quasi duecento sono quelle che superano,
ogni anno, il milione. È questo il reddito di una canzone media, che non
riesca a riscuotere un grande successo. L'editore, però, e in caccia di
eccezioni: un'eccezione, infatti, attraverso l'incisione su disco, ed una
popolarità nazionale ed estera, può fruttare un reddito di venticinque-trenta
milioni.
La caccia all'eccezione è anche una caccia all'incognito:
a differenza di altre forme industriali, questa deve tenere presente un dato
fondamentale, l'imponderabile. Un buon editore raramente fa un buco nell'acqua:
esiste una rete di contatti che garantiscono il lancio del pro. dotto, senza il
quale una canzone, per quanto bella non riuscirà a sfondare. Le richieste del
pubblico sono fornite da un'esperienza quotidiana. Ma la carta perfetta non si
può riconoscere in anticipo.
La carta buona,
attenendosi alle cifre sopra riportate, una rarità: essa dovrà soddisfare tutti
i ceti del pubblico.
Imponderabile
e specializzazione sono dunque i due lati che regolano la vita della canzone:
l'ultimo sta all’interno della sfera produttiva, il primo al di fuori. Ecco i
due poli, il dare e l'avere, che la canzone copre come un arco: il primo in
funzione del secondo.
Ma perché, oggi, il disco è divenuto un bene di consumo
così imponente? Perché l'americano, ad esempio, acquista un disco per il week-end alla
prima edicola? Perché tanta gente affronta una spesa non indifferente,
investendo più di quanto si verifichi nel settore dei libri? La risposta non può
essere che una: la semplicità, la facilità, l'accessibilità, attributi
peculiari di una canzone. Essa parla con il linguaggio di tutti i giorni,
esprime cose di tutti i giorni, costruisce un romanzo, in tre minuti.
(I. Prevignano Rapetti, Io, la canzone Ricordi, Milano, 1962).
La tendenza
all'appiattimento e all'evasione provocata dal consumismo è particolarmente
osservabile in Italia, dove ad una diseducazione musicale preoccupante fa riscontro
l'imposizione al grosso pubblico di prodotti di bassa qualità, frutto più di
improvvisazioni che di una preparazione professionale seria. Esistono, è ovvio,
molte e anche valide eccezioni, soprattutto nella musica « giovane » più
recente; ma le eccezioni non sono ancora sufficienti a modificare il quadro
generale determinato dai « mass media ».
Tipologia della
canzone di consumo di Giuseppe Delconte
Non è cosa nuova che specialmente in un prodotto musicale indirizzato a grandi masse,
assuma un'importanza fondamentale il messaggio contenuto nel testo poetico: è
questo un principio di cui si tiene sempre maggior conto tra i produttori di
ogni parte del mondo. Ovviamente anche in Italia, patria del melodramma, dove
le orecchie della gente quasi non sanno ascoltare musica senza parole
l'importanza del messaggio è imperante.
Tuttavia esiste una certa confusione sul tipo di messaggio
oggi più richiesto dal pubblico italiano. Si ondeggia così tra i temi
erotico-sofisticati delle canzoni di Patty Pravo o di Ornella Vanoni e le
storie di periferia dei Celentano o dei Gaber, tra le canzoni pseudo impegnate
(rigonfie di ipocrisia e di retorica), i rinverditi temi romantici di Al Bano e
Massimo Ranieri e le amene moraleggianti storielle di amori puliti, care
all'infantilismo paesano.
Raramente si ha il coraggio di uscire da questi filoni, ed
anche i personaggi più popolari subiscono grossi tonfi ogni volta che si
avventurano fuori dal genere che li ha resi celebri. Tuttavia è soprattutto il
linguaggio, le caratteristiche di stile con cui vengono espressi questi argomenti,
che resta rigorosamente legato ad una tipica tradizione di gusto nostrano.
Proviamo ora un insolito confronto
tra i testi di due canzoni che si potrebbero considerare i due antipodi
dell'universo italiano: un tipico successo del tradizionalismo paesano, Fin che la barca va di Pilat-Pace, cavallo di
battaglia di Orietta Berti, e Via del Campo del cantautore Fabrizio De André,
un idolo dell'élite dei consumatori di 33 giri ma modestamente piazzato sul
mercato dei 45.
Stasera mi è suonato il campanello. È strano, io l'amore
ce l'ho già. Vorrei aprire in fretta il mio cancello. Mi fa morire la
curiosità.
Ma
il grillo disse un giorno alla formica: il pane per l'inverno tu ce l'hai.
Vorrei aprire in fretta il mio cancellò ma quel cancello io non lo apro più.
Fin che la barca va, lasciala andare...
In via del Campo c'è una bambina con le labbra color
rugiada,
gli
occhi grigi come la strada, nascon fiori dove cammina.
In
via del Campo c'è una puttana, gli occhi grandi color di foglia, se di amarla
ti vien la voglia basta prenderla per la mano;
e
ti sembra di andar lontano, lei ti guarda con un sorriso, non credevi che il
paradiso fosse solo lí al primo piano.
Quanto ad atteggiamenti morali, sono questi indubbiamente
due estremi opposti: da una parte un messaggio chiaramente repressivo e
bigotto, dall'altra un quadretto anticonformistico venato di un decadentismo
patetico e bonariamente maudit con quell'uso poetico della volgarità popolana che
denuncia l'influenza dei più raffinati chansonniers di scuola francese.
Sul piano stilistico invece, al di là di ogni giudizio definitivo
sul valore artistico che in questo momento non ci riguarda, possiamo notare
sorprendenti analogie. Una certa tendenza ad esprimere scene e sentimenti
popolareschi con un linguaggio piuttosto letterario e borghese, un certo
attaccamento all'uso tradizionale delle rime.
Addirittura possiamo rintracciare nei due brani due
immagini metaforiche (« Vorrei aprire in fretta il mio cancello » « nascon
fiori dove cammina ») il cui riferimento sessuale è recepito inconsciamente
dal consumatore di massa ma è ben noto in tutta la sua efficacia emotiva agli
autori.
Certi caratteri stilistici in fin dei conti appartengono
anche alla più autentica tradizione popolare dal Medioevo all'Ottocento, e
senza distinzione di argomenti (da quelli mistici a quelli goliardici, dagli
idilli amorosi alle storie tragiche delle leggende e delle cronache paesane
fino a quelle burlesche da osteria).
Tuttavia nella tradizione popolare queste immagini quasi
codificate, queste metafore, queste formule della nostra retorica erano
congeniali all'attualità del canto, vive perché funzionali. Nei prodotti
odierni, poveri o totalmente sforniti di attualità, le stesse formule svuotate
di funzionalità, ma pur sempre dotate di una poderosa, quasi magnetica forza
di attrazione sulla psiche dell'uomo-massa italiano, diventano degli astratti
e ingiustificati meccanismi che lo seducono, lo irretiscono e quindi lo trascinano
in maniera coatta verso lo stadio dell'evasione pura.
Naturalmente i meccanismi qui descritti non sono mai
perfetti e le contraddizioni interne al prodotto di evasione portano talvolta
il consumatore a parziali prese di coscienza critica sia in senso estetico che
sociale; quando ciò accade, proprio perché si tratta di prodotti di larghissimo
consumo e non di creazioni artistiche destinate ad una élite, un ben che minimo
sviluppo del senso critico nella massa può diventare un fenomeno
socio-culturale di rilievo. Purtroppo perché sorgano tali contraddizioni è
indispensabile che i produttori, per quanto integrati, siano sensibili
criticamente nei riguardi dei problemi più attuali della loro società e si
trovino all'avanguardia per quanto concerne una preparazione completa e scientifica
nel loro campo professionale.
Queste sono le ragioni principali del successo di alcuni
complessi d'avanguardia nella musica pop americana e, forse ancora di più, in
quella inglese; e per questo tale successo ha avuto anche una portata sociale,
almeno in parte positiva, a dispetto del marchio infamante di commercialità
affibbiato senza troppi distinguo a questa musica.
Se in Italia non possiamo riscontrare fenomeni altrettanto
positivi è proprio perché è ferocemente repressa o ipocritamente falsata
qualsiasi tendenza all'attualità e, d'altra parte, non è in alcun modo favorita
una vera preparazione professionistica. E si badi bene che i due esempi in
precedenza analizzati, per quanto esemplari di tutto un gusto nostrano, sono
due prodotti realizzati da alcuni tra i più collaudati professionisti della canzone
italiana, dove tuttavia alla solidità del mestiere non fa riscontro una
sufficiente sensibilità al gusto attuale e soprattutto alla dinamica storica
della musica popolare.
Insomma anche laddove i canzonettisti italiani
utilizzano, pur a diversi livelli di produzione, una sufficiente preparazione
ed un rispetto per la più autentica tradizione, lo fanno con scarso senso
critico e trasformano quel rispetto in passiva e colpevole condiscendenza
verso il gusto immobilista dei detentori del potere e della parte più retriva e
impreparata del pubblico (che purtroppo è ancora larga maggioranza).
A questo punto si potrà obbiettare che si è tirata una
serie di conclusioni basandole soltanto sull'analisi del testo poetico delle
canzoni. Per la musica tuttavia il discorso non cambia: il legame musica-testo
è così stretto che possiamo senz'altro affermare che le caratteristiche e le
lacune tipiche del messaggio verbale si rispecchiano fedelmente in quello
musicale. Infatti, nonostante gli sforzi di rinnovamento di alcune personalità
delle ultime generazioni, facili effetti, ricerca della più banale
orecchiabilità, tendenza delle melodie al più sbracato e vuoto sentimentalismo,
solennità da cattivo melodramma restano le caratteristiche più scoperte della
“canzone che vende”.
L'abile rimpasto di schemi già collaudati dà sicurezza;
l'originalità spaventa, al massimo può introdursi in porzioni microscopiche per
non urtare la sensibilità ottusa del consumatore. Il rispetto per la mediocrità
del gusto pubblico è legge anche per i creatori più preparati, come per i
programmatori radiotelevisivi; e il risultato assurdo di ciò è che in pochi
Paesi come nel nostro il consumatore medio si scandalizza tanto per una
canzone o un cantante che cerca di proporre un'infinitesima porzione di novità.
Dunque le caratteristiche della canzone italiana sono la
spia innegabile di una situazione culturale, colpevolmente subita da autori ed
interpreti: in parole povere il semianalfabetismo musicale del cosiddetto «
paese del bel canto ».
(G. Delconte, in Generazione
zero, n. 10, marzo 1971).
Conclusione aperta
Abbiamo accennato solo ad alcuni tra i molteplici aspetti che investono la
musica. Sono stati trattati quegli argomenti che maggiormente influiscono
sulla nostra vita sociale: il canto di protesta, il jazz, il pop, la
canzone, il folk.
E' stata tralasciata la gigantesca corrente della musica contemporanea, spesso allineata a quella del dissenso giovanile, almeno per quanto riguarda gli intendimenti politico-sociali.
È certo in ogni caso, che la musica non è più un'arte marginale che può servire come riempitivo nei momenti di riposo, ma rappresenta pienamente un fatto di costume e di pensiero determinante per la nostra vita quotidiana.
E' stata tralasciata la gigantesca corrente della musica contemporanea, spesso allineata a quella del dissenso giovanile, almeno per quanto riguarda gli intendimenti politico-sociali.
È certo in ogni caso, che la musica non è più un'arte marginale che può servire come riempitivo nei momenti di riposo, ma rappresenta pienamente un fatto di costume e di pensiero determinante per la nostra vita quotidiana.
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