Viaggio intorno alla Pop-Art
La Pop Art esplose nel 1962 sulla 54ma strada di New York.
Era l’anno del primo volo intorno alla terra dell’astronauta John Glenn, Kennedy mandò diecimila consiglieri militari nel Vietnam e Norma Jean Baker, in arte Marilyn Monroe, si sarebbe uccisa ufficialmente (usando 1.000 condizionali...) con una overdose di barbiturici.
Non fu comunque una esplosione isolata: in Inghilterra, sia pure con maggior snobismo e maggior finezza manuale, lavoravano già su temi simili artisti come Hamilton, David Hockney, Kitay e Peter Blake; in Francia Marzial Raysse aveva già cominciato - come il geniale calabrese Mimmo Rotella - a strappare sensatamente manifesti, Arman a fracassare pianoforti e incastonarli in blocchi di plastica, e Cesar a esporre come sculture pollici giganti e automobili compresse.
Ma la Pop-Art fu targata nel bene e nel male a stelle e strisce americane, nel gigantismo, come nella volgarità, nei prezzi immediatamente spropositati come nell'immediata cristallizzazione nei musei, strettamente legata a fenomeni artistici come I'happening e a ipotesi politiche come il Welfare State, lo stato del benessere, utopisticamente idealizzato da John Fitzgerald Kennedy e dai suoi ‘consigliori’.
Fu, in sostanza, una delle tante esemplificazioni del Great american dream, il Grande Sogno Americano che va dalla Capanna dello zio Tom ai film di Frank Capra e John Ford, a Star Trek.
Materiale della Pop Art fu il quotidiano più invadente, non necessariamente volgare, ma onnipresente.
E così, nelle sofisticate gallerie della Cinquantasettesima, apparvero lattine di zuppa Campbell, bottiglie di Coca-Cola, sedie elettriche, facce di Elvis, di Liz Taylor, di Jacqueline Kennedy, trapani, frigoriferi, fiori di plastica, gelati e surgelati rifatti in gesso nelle colorazioni più improbabili, frammenti di fumetti, calchi in gesso dal vero di camionisti che scendevano da veri camion.
Immediatamente il fenomeno rimbalzò non solo nelle recensioni delle riviste specializzate, ma subito sulle copertine di Time e di Life e si innescò quel dibattito che non è mai terminato. L'esplosione ebbe una serie di concause: la novità assoluta, I'avallo di mercanti sicuri e perfettamente inseriti nel meccanismo della museificazione e del collezionismo privato e - non ultima - la situazione dell'arte americana di quel momento.
Immediatamente il fenomeno rimbalzò non solo nelle recensioni delle riviste specializzate, ma subito sulle copertine di Time e di Life e si innescò quel dibattito che non è mai terminato. L'esplosione ebbe una serie di concause: la novità assoluta, I'avallo di mercanti sicuri e perfettamente inseriti nel meccanismo della museificazione e del collezionismo privato e - non ultima - la situazione dell'arte americana di quel momento.
Gli inizi degli anni Sessanta videro infatti, in parte per autodistruzione (il numero dei suicidi era impressionante), la fine di quel movimento artistico che viene di solito etichettato come “espressionismo astratto” e anche come action painting, che ha i suoi protagonisti in Jackson Pollock, Franz Kline, Mark Rothko, Arshile Gorky, Barnett Newmann, tanto per citarne alcuni.
E' caratterizzato da una tensione dei colori sulla tela mediante campi astratti, oppure da una occupazione totale della medesima tela con grandi sciabolate o, addirittura, con i celeberrimi sgocciolamenti (dripping) di colore di Pollock.
Un movimento artistico che toccò vette altissime e che costituisce il vero tramite tra I'arte europea e quella del nuovo continente: non a caso molti dei protagonisti erano ebrei, russi, o tedeschi sfuggiti al nazismo.
Un movimento, tuttavia, che era arrivato a una naturale consunzione, proprio per la mancanza di vie d'uscita espressive che la sua tematica lasciava.
E su questo movimento si inserisce la Pop Art.
Gli artisti della Pop, per loro stessa unanime ammissione, si sono trovati davanti le opere dei maestri e predecessori, con tutte quelle superfici informalmente travagliate, e hanno pensato di poterle riempire anche con forme e oggetti dell'uso visivo quotidiano.
Cosi hanno fatto, per esempio, i padri storici della Pop, Robert Rauschenberg e Jasper Johns, che hanno iniziato con superfici lavorate nello stile dell'action painting inserendovi bruciature, bandiere americane, scarpe, barattoli.
E cosi hanno poi fatto tutti gli altri.
C'e poi da tener presente anche un altro fattore: la diversa formazione culturale dei vari artisti.
Se i padri storici dell'espressionismo astratto erano in sostanza (Pollock compreso) intellettuali di formazione europea, cresciuti poi nella megalopoli linguistica e multirazziale di New York, gli artisti della Pop-Art, forse con la sola esclusione di Lichtenstein e Segal, erano ragazzotti della sterminata provincia agraria americana con alle spalle il classico rituale Usa dei molti mestieri fatti e una partenza da disegnatori pubblicitari.
Il loro approccio con la realtà che li circondava era molto più sorpreso e molto meno soggetto a filtri interpretativi.
E' lo stesso Andy Warhol a raccontare che una volta un collezionista gli chiese una bottiglia di Coca-Cola.
Lui la fece e poi capì che allo stesso modo avrebbe potuto fare anche lattine di birra, scatole di zuppa e così via.
Non fu una ragione dissacratoria o una scelta culturale.
Il loro procedimento non è analogo (anche se lo è nella sostanza) a quello dei Dadaisti degli anni Venti che, con Duchamp e Man Ray, sostenevano che uno scolabottiglie o un cesso esposti in un museo hanno lo stesso spessore artistico della Venere di Milo.
Fecero quello che fecero perchè pensavano che la realtà visiva che li circondava nelle sue forme più ossessive (televisione, cinema, fumetti, pubblicità, stampa) facesse parte di un determinato modo di vedere e di vivere dell'uomo americano e andasse per questo evidenziata e, in un certo senso, nobilitata, se presentata come forma d'arte.
Ed eccoli cosi pescare nei comics, nella spazzatura, nei supermercati, nella pornografia più banale e asettica, nei cataloghi della vendita per corrispondenza, nelle tragedie e nelle farse del quotidiano.
Così e non altrimenti nasce quel movimento che i critici, dopo alcune fasi di incertezza in cui usarono etichette come ‘nuovo Dada’ o ‘movimento della fetta di torta’ (per via dei dolci ingigantiti di Oldenburg), battezzarono in uno storico convegno al Museo d'Arte Moderna di New York, Pop Art.
Pop nel senso di «popular», popolare, di largo consumo, come la Pop Music.
La mostra di Venezia del 1979 (sponsorizzata in perfetto stile Pop dalla Bmw Italia) si aprì nel cortile di Palazzo Grassi, con due prototipi di auto con le carrozzerie ridipinte da Warhol e da Lichtenstein. Mancarono personaggi come Rauschenberg e Johns; e mancarono pure molti personaggi collaterali della Pop americana come Ramous, Marisol, Indiana, Ruscha.
Quella importante rassegna italiana su centrata sui sette protagonisti stracitati del movimento.
Claes Oldenburg, nato in Svezia nel 1929. Il teorico del «soft», del molle. Con sostanze spugnose ha realizzato sculture di carburatori, motori, aspirapolvere, water. E' pure il realizzatore e I'espositore della più ridicolmente repellente pasticceria e macelleria, di cui fa calchi in gesso. Ma la sua vera vena e il gigantismo: enormi monumenti a forma di mollette per appendere i panni (ne ha fatto uno alto come una casa di quattro piani), pale da giardiniere, coni gelati.
Dal 1962 ad oggi non ha cambiato molto: di recente ha lavorato con lettere dell'alfabeto viste come anatomia umana e assemblate nella forma di un gigantesco lecca-lecca.
James Rosenquist, (1933 - 2017) Nato a Grand Forks (USA), ex disegnatore pubblicitario, figlio di due piloti. Di lui si è detto che è stato il più fedele interprete del sogno del benessere kennediano, nel senso che più di ogni altro ha attinto ai segnali di quella pubblicità che esaltava un paese tranquillo e ben nutrito.
Suoi temi prediletti, ieri come oggi, sono i frammenti dei volti delle modelle, accostati a rossetti, bottiglie di bibite, cofani d'automobili scintillanti, pomodori e vegetazioni tropicali viste delle agenzie di viaggi.
George Segal, (1924 – 2000) Era nato a New York, poco lontano dalla casa di Woody Allen di cui era grande amico. Dal 1962, con un successo che non conosce pause e una costanza che non teme monotonia, realizzava i suoi celeberrimi calchi in gesso a grandezza naturale di persone, anche di se stesso. Gente in attesa, che lavora, che ama, che muore, che si traveste, che vive nei recessi degli slum più degradati della metropoli come negli snob loft di Soho.
Usava sempre come contorno mobili e suppellettili raccattate per la strada o dai rigattieri e sorrideva quando si paragonava la sua opera ad una Pompei degli anni Duemila. Diceva che le sue statue sono ‘carne comune’.
Andy Warhol, (1928 – 1987) Già famoso disegnatore di scarpe da donna, cineasta, regista, produttore, scrittore ed editore. Lavorava esclusivamente con fotografie serigrafate su tela emulsionata. Ha ritratto praticamente tutto: dalla Coca-Cola a Elvis, alla sedia elettrica, agli anemoni, alle auto fracassate, alla zuppa, a Cassius Clay, Mao, Marilyn, Liz Taylor, Jacqueline Kennedy, Gianni Agnelli, Marlon Brando, la falce e martello, il fungo atomico, fino ai travestiti negri. Sulla tela fotografica regalava sciabolatine di vernice ricavata dalla polvere dei diamanti industriali. Diceva che cosi era più difficile falsificare i quadri.
Era il più convinto (ma non si sa quanto sincero) assertore del fatto che la Pop-Art non è arte, e passava il tempo libero fotografando con una Polaroid i genitali degli amici.
Tom Wesselman, (1931 – 2004). Il suo tema costante era il ‘Great american nude’, il gran nudo americano, che realizzava usando modelle vere di cui talvolta si innamorava. Un tempo inseriva i suoi nudi dipinti in tele su cui collocava oggetti presi dall'uso quotidiano come porte di frigorifero, portasapone, assi di water, docce a telefono, rotoli di carta igienica, bottiglie, neon, radio, orologi. Dipingeva il tutto, spesso a frammenti, con bocche che fumano sigarette, o mezze facce di biondone che rispondono al telefono.
Qualche volta invertiva le abbronzature: scuriva le parti intime, schiariva il resto del corpo.
Jim Dine, nato nel 1935 in Cincinnati (USA). Dal punto di vista pittorico era il più dotato del gruppo. Partito con grandi tele stile ‘action painting’ su cui inseriva tubi da stufa, trapani, scarpe, stracci, tavolozze, pale, coltelli, forchette; a mano a mano e andato sempre più verso una pittura ‘dipinta’, con le celebri vestaglie e le illustrazioni per Oscar Wilde.
Dipingeva bottiglie citando Morandi, di cui è un grande estimatore, (ma le bottiglie paiono più di Tomea) e fa ritratti a matita molto realistici.
Roy Lichtenstein, (1923 – 1997) Ex pittore astrattista ed ex insegnante di Accademia. Era il celeberrimo rifacitore dei fumetti: enormi tavole di comics ingigantite riproducenti con maniacale perizia quel retino tipografico che è il suo marchio di fabbrica.
Ha compiuto la stessa operazione anche con frammenti di archeologia classica e opere di maestri dell'arte moderna (Picasso, Matisse, Braque, Mondrian) ridotte a fumetti. Diceva: “Nel '62 avevamo fiato per due anni al massimo, ne durammo tre. Ci andò meglio di quanto pensassimo”.
La grande novità della Pop-Art fu quella di far entrare l’Arte per la prima volta, nei termini e negli oggetti usati nella vita quotidiana. Ha inoltre aiutato a far diminuire la distanza tra “arte di alto spessore” ed “arte di basso valore”, ad eliminare la distinzione tra arte ‘colta’ e arte ‘commerciale’.
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